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Detenuto assolto da 285 accuse

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Questo articolo è stato pubblicato il 19 novembre 2010 alle ore 06:38.


NEW YORK. Dal nostro inviato
È questione di numeri e di interpretazione. I numeri sono indiscutibili: 224 vittime, una condanna per un singolo capo di accusa su 286 e un'imminente sentenza a non meno di 20 anni. Ma negli Stati Uniti quei numeri sono stati interpretati in due maniere diametralmente opposte.
E il verdetto emesso mercoledì sera dal tribunale federale di New York contro il trentaseienne tanzaniano Ahmed Ghailani, accusato di aver partecipato al duplice attacco terroristico del 1998 contro le ambasciate Usa in Kenia e Tanzania, è stato l'ennesimo segnale che, al di là della retorica del dialogo, il futuro di Washington non riserva altro che contrapposizione frontale.
È infatti difficile immaginare un compromesso tra due posizioni così distanti. Da una parte c'è il Dipartimento di Giustizia che ha posto l'enfasi sulla condanna al primo detenuto di Guantanamo processato in un tribunale civile. L'uomo è stato condannato per associazione a delinquere per la distruzione di beni americani con esplosivi. Un risultato non da poco viste le difficoltà di un procedimento civile seguito ad anni di incarcerazione militare extra-giudiziaria. Come ha detto il giudice che ha presieduto il processo, Lewis A. Kaplan, la giuria ha dimostrato che «giustizia in America può essere resa in modo calmo, pensato ed equo da persone non asservite a nessun governo. Neppure quello di casa propria». In altre parole, il verdetto è motivo di orgoglio per l'America.
Oppure no. Vista l'assoluzione sugli altri 285 capi d'accusa, procedura e verdetto sono una «disgustosa vergogna», come ha detto Peter King, deputato repubblicano di Long Island e futuro presidente della Commissione per la sicurezza nazionale della Camera. «Questa vicenda è un tragico campanello d'allarme per l'amministrazione Obama, che farà bene a rinunciare subito a qualsiasi piano di processare i responsabili della strage dell'11 settembre in un tribunale non militare» ha dichiarato King. «La realtà è che li si deve trattare come nemici di guerra e quindi farli processare da commissioni militari a Guantanamo».
Altrettanto severo il giudizio di Liz Cheney, figlia dell'ex vice-presidente, secondo la quale si è trattato di «un esperimento giudiziario pericoloso che deve finire qui». L'ironia è che chi critica la procedura e il verdetto lo fa puntando il dito contro una decisione-chiave presa all'inizio del processo dal giudice Kaplan, quella di escludere la testimonianza di un minatore tanzaniano che nel corso di un'udienza preliminare disse di aver venduto tritolo a Ghailani. Kaplan ha deciso di escluderla perché il ruolo e l'identità del minatore erano emersi nel corso di interrogatori «con tecniche aggressive» ai quali era stato sottoposto l'imputato quando era detenuto in un carcere segreto della Cia. Ma come ha scritto lo stesso giudice in una nota a margine della decisione, quella testimonianza sarebbe stata forse esclusa anche dalle commissioni militari, in quanto in violazione della stessa costituzione Usa.

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Tags Correlati: Ahmed Ghailani | Camera dei deputati | CIA | Guantanamo | Lewis A. Kaplan | Liz Cheney | New York | Obama | Peter King | Tanzania |

 

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