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Fli sfida il Pdl sul simbolo: senza Fini non può usarlo

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Questo articolo è stato pubblicato il 23 novembre 2010 alle ore 07:34.

Nessuna tregua in vista tra Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi. Ieri si è aperto un nuovo fronte: quello del simbolo Pdl. Che per Italo Bocchino non è più utilizzabile senza il consenso comune di fondatore e cofondatore del partito. Implicita ma chiara la conseguenza: Fini si opporrà in tutti i modi all'uso da parte del premier del simbolo del partito da cui è stato cacciato. Una questione che potrebbe tradursi in una disputa in tribunale. Più immediati, per il premier, gli effetti dell'annuncio fatto ieri da Pierferdinando Casini. «Siamo un partito d'opposizione. Voteremo la sfiducia. Ma è importante ciò che succederà il 15 dicembre: un Governo con pochi voti di fiducia che fa? Tira a campare? Auguri» dice il leader dell'Udc lasciando intendere che a quel punto il governo di armistizio, da lui proposto nel weekend, tornerà di attualità.
Ma ieri è stato il simbolo Pdl a monopolizzare il dibattito. «Dicono che Berlusconi stia preparando un nuovo partito per rinnovarsi in vista del voto - esordisce Bocchino sul sito di Generazione Italia - comprendiamo la sua esigenza, anche perché il nome e il simbolo del Pdl sono in comproprietà con Fini e non potrà utilizzarli fino al 31 luglio 2014». E se il premier volesse «scendere in campo definendosi "il vero centrodestra" - prosegue Bocchino - per evitargli problemi giudiziari, che purtroppo non gli mancano gli comunichiamo che dal 17 maggio scorso "il vero centrodestra" è stato registrato da noi all'ufficio marchi e brevetti di Roma».

La sfida è lanciata. Dal Pdl si alza un fuoco di dichiarazioni per demolire giuridicamente e politicamente le tesi di Fli. C'è chi ricorda che il logo Pdl è stato presentato all'ufficio brevetti e marchi della Ue da Berlusconi in persona, c'è chi come il sindaco di Terzigno Domenico Auricchio – come aveva raccontato al Sole-24 Ore il 6 novembre – rivendica di essere il creatore di quel marchio «con scrittura privata ceduto a Silvio Berlusconi il 24 maggio 2007».
Ma Bocchino rilancia e precisa in un'intervista al quotidiano online affaritaliani.it: «Berlusconi era il titolare del simbolo ma dopo ne ha ceduto l'utilizzo con un contratto notarile dinanzi al notaio Becchetti di Roma a firma congiunta sua e di Fini». Nel mirino è l'atto costitutivo del Pdl che all'articolo 6 recita: «Costituisce patrimonio comune dell'associazione il simbolo». E poi continua: «In caso di scioglimento dell'associazione il simbolo non potrà essere oggetto di uso da parte degli associati se non con il comune espresso accordo scritto di tutti». In base a queste righe, sottoscritte da Berlusconi, Fini e altri 8 fondatori, il senatore Pdl Antonino Caruso (che era tra i firmatari) spiega: «L'accordo serve solo in caso di scioglimento del partito, ma oggi il partito esiste, nessuno l'ha sciolto». Ma Fli non ci sta: «È una lettura riduttiva del documento» controbatte il finiano Antonio Buonfiglio.

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Tags Correlati: Antonino Caruso | Antonio Buonfiglio | Generazione Italia | Gianfranco Fini | Governo | Italo Bocchino | Pasquale Viespoli | PDL | Pierferdinando Casini | Roma | Senato | Silvio Berlusconi | Udc

 

Al di là degli aspetti giuridici, la questione è comunque tutta politica. E testimonia di un conflitto sempre più aspro tra i due ex alleati. «A me pare una discussione assurda e puerile – chiosa il capogruppo pdl al Senato Maurizio Gasparri –: si fa una scissione, si minaccia di fare un governo di maggioranza con le sinistre e poi si dice pure: "no, tu non sei il centrodestra e il simbolo è mio?"». E il ministro e coordinatore del Pdl Sandro Bondi stigmatizza: «Si tratta di toni, giudizi, provocazioni, pose che sarebbero a stento ammessi nelle più misere discussioni condominiali». Ma da Fli Pasquale Viespoli fa notare che «sul piano politico la rottura con Fini segna la fine del Pdl. E il simbolo non può non tenerne conto». E Bocchino incalza: «Non capisco la reazione arrabbiata e violenta, se abbiamo torto o ragione lo diranno i magistrati». La polemica politica sembra quindi destinata a trasformarsi in una guerra delle carte bollate.

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