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L'aria di Cancun una grande ribalta per piccoli passi

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Questo articolo è stato pubblicato il 29 novembre 2010 alle ore 08:10.
L'ultima modifica è del 29 novembre 2010 alle ore 08:44.

Si apre oggi a Cancun, in Messico, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. In gioco c'è il futuro del pianeta. Ma state pure comodi. Al termine, tra dieci giorni, non succederà niente. Non verrà firmato nessun trattato. Non ci sarà alcun accordo globale. Non saranno fissati vincoli rigorosi sull'emissione di gas serra. Le aspettative sono rasoterra. C'è stato il fallimento del vertice di Copenaghen dell'anno scorso, ci sono state le polemiche sulle piccole truffe del rapporto Onu del 2007 e anche le notizie che i ghiacciai dell'Himalaya non si scioglieranno più entro nel 2035 e che il buco dell'ozono s'è improvvisamente chiuso. Anche il pre-vertice in Cina, qualche giorno fa, è andato male. Vive, invece, le polemiche, le accuse, il tifo da stadio.

Non c'è solo questo. Prima di Cancun, il nord ricco del mondo non voleva rinunciare alla dipendenza dal combustibile fossile. E il sud povero, ma emergente, non voleva rinunciare alla prospettiva di sviluppo. Oggi la situazione è peggiorata, dicono gli esperti. A causa della crisi sistemica, il nord pensa di essere diventato povero, di non avere più le risorse per cambiare rotta sui cambiamenti climatici, di non poter regalare ai paesi emergenti il già ridottissimo vantaggio economico. La palma va a nord, diceva Leonardo Sciascia.

Nonostante le premesse, non è detto che Cancun sarà un flop. A leggere i giornali internazionali sembra che la Conferenza sia già scritta, archiviata, la cronaca annunciata di un fallimento. Le speranze sono già riposte sul 2011, quando il cerino passerà alla successiva conferenza già convocata in Sudafrica. L'obiettivo a Cancun è non far saltare il banco, evitare che l'ennessimo flop costringa il mondo ad archiviare il modello Onu della contrattazione globale e magari riporre nei cassetti l'utopico progetto di tenere tutto insieme, ricchi e poveri, nord e sud, paesi industrializzati e in via di sviluppo.

Il fallimento della Conferenza paradossalmente potrebbe avere effetti benefici sul clima. In mancanza di un impossibile accordo sulla riduzione delle emissioni, i singoli paesi e le singole imprese potrebbero muoversi autonomamente, in modo volontario, attivando un circolo virtuoso che ancora non c'è. Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania sono ancora tra i più grandi inquinatori, ridurre le emissioni ha un impatto insopportabile sulla loro produzione industriale, specie in un momento di crisi e con la concorrenza sempre più creativa dei paesi emergenti.

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Tags Correlati: Barack Obama | Bjorn Lomborg | Cina | Kyoto | Leonardo Sciascia | Onu | Tutela ambientale

 

Ma uno studio di giugno 2009 di PriceWaterhouseCoopers svela che il 46% degli amministratori delegati delle aziende americane prende già decisioni su prodotti e servizi in base alla nuova consapevolezza climatica, mentre il 40% inizia a tenerne conto.

A Cancun i 172 paesi partecipanti si metteranno d'accordo su obiettivi meno ambiziosi, ma non poco importanti. Saranno piccole azioni concrete per ridurre la deforestazione, consigli ai paesi poveri per adattarsi ai cambiamenti climatici, impegni a favore dello sviluppo, del benessere, della ricchezza dei cittadini, perché la miglior protezione contro il surriscaldamento terrestre, ha scritto l'Economist, è avere i mezzi per proteggersi dall'aumento dei prezzi del cibo, per investire in nuove tecniche agricole, per spostarsi in zone geografiche al sicuro rispetto ai mutamenti del clima.

Il saggista Bjorn Lomborg ha scritto sul Wall Street Journal che gli obiettivi di queste conferenze Onu costano moltissimo (centinaia di miliardi di dollari l'anno), non vengono rispettati e, anche se lo fossero, in ogni caso non risolverebbero il problema. Se tutti i paesi del mondo si adeguassero per un secolo al protocollo di Kyoto (1997) la riduzione della temperatura sarebbe meno di un terzo di un grado. La ragione, spiega Lomborg, è che le energie alternative non esistono, non sono pronte, non riescono ancora a sostituire i carburanti fossili. Oggi, scrive Lomborg, gli investimenti mondiali nella ricerca e sviluppo di energie pulite ammontano a 2 miliardi di dollari annui. Se a questa cifra si aggiungessero 100 miliardi l'anno, quasi la metà di quanto costerebbe attuare Kyoto, la svolta sulle energie rinnovabili magari ci sarebbe davvero.

Sono passati ventidue anni da quando le Nazioni Unite hanno iniziato a studiare gli effetti del surriscaldamento globale sul pianeta e qualcuno in più, trentacinque, dai titoli del New York Times, di Newsweek e di Time che annunciavano come inevitabile una "nuova era glaciale". Caldo o freddo, c'è consenso scientifico intorno ai cambiamenti climatici e alla loro pericolosità per l'ecosistema e le generazioni future: inondazioni, desertificazione, calamità territoriali. C'è meno consenso sulle cause. Zero sulle soluzioni.

Un anno fa il mondo credeva che Barack Obama avrebbe risolto con un semplice tocco della sua bacchetta magica il problema del futuro del pianeta, oltre a molti altri. Tutti si aspettavano che grazie alla sua formidabile leadership globale avrebbe finalmente convinto il mondo a trovare un accordo internazionale per ridurre la temperatura della Terra. Non c'è riuscito perché Obama non è Superman, non è il messia e soprattutto non esistono bacchette magiche. Come dice la copertina dell'Economist di questa settimana: c'è da imparare a convivere con i cambiamenti climatici.

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