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Questo articolo è stato pubblicato il 30 novembre 2010 alle ore 06:36.
«La speculazione scommette contro l'euro e, di conseguenza, penalizza i paesi più deboli nel Vecchio continente». Allarga le braccia il capo della sala di trading di una banca italiana. Domenica è stata salvata l'Irlanda, ma lunedì i mercati hanno picchiato duro l'intera Europa come se il salvataggio di Dublino non ci fosse mai stato. Lo spread rispetto ai Bund tedeschi è salito a 453 punti base per il Portogallo, a 274 per la Spagna e 195 per l'Italia. Il mercato, nel cinismo delle quotazioni, è come se avesse fatto la classifica dei paesi più deboli post-Grecia e Irlanda: prima c'è il Portogallo, poi la Spagna. E, allargando il tiro, ha iniziato a puntare sull'Italia. Si tratta, ovvio, di tre realtà ben diverse. Eppure, in controluce, hanno un problema comune: non possono agire, come farebbe qualunque stato, svalutando la moneta. Perché non hanno più valute nazionali. Forse Stati Uniti e Gran Bretagna hanno bilanci pubblici e privati peggiori, ma i paesi europei hanno le mani legate: non possono agire autonomamente né sul cambio, né sui tassi. E i mercati ci giocano sopra. Con cinismo.
Portogallo e Spagna
I primi della lista sono Portogallo e Spagna. Lisbona ha un'economia zavorrata da un eccesso di debito, sia pubblico sia privato, e ha sempre avuto un bilancio statale in rosso. Con quel -9,3% di deficit, il Portogallo è guardato con sospetto dai mercati. La Spagna, in quanto a rosso di bilancio, è anche peggio: -11,1% nel 2010. Per contro, però, ha un basso debito pubblico, pari al 53,2% del Pil (contro una media europea del 79,2%): questo dà a Madrid una maggiore capacità di assorbire gli shock. Ma in Spagna il vero nodo è il debito privato, creato con il boom del mattone degli anni passati: «Le banche prestavano alle società immobiliari per costruire case e poi finanziavano le famiglie per comprarle», osserva Silvio Peruzzo, economista di Rbs. Per ora i prezzi delle case non sono scesi molto (-12% dai massimi del 2008), ma se calassero di più, per le banche potrebbero esserci problemi. Poi per lo stato.
Cosa fare dunque? La risposta più ovvia sarebbe svalutare le monete nazionali e ridare slancio all'economia. Ma Madrid e Lisbona non sono Washington. Dunque a loro non resta che la seconda opzione: tagliare le spese. «I portoghesi dovrebbero fare come hanno fatto i paesi baltici – suggerisce un economista –: tagliare gli stipendi del 20-25%». Ma se si tagliano i salari, difficilmente l'economia cresce. E se l'economia non cresce, difficilmente si aggiusta il bilancio. Spagna e Portogallo erano infatti abituate ad aumentare il Pil nominale del 7,6% e del 4,2% all'anno dal 2000 al 2007: questo generava entrate fiscali sufficienti per tenere in piedi la baracca. Ma ora la musica è cambiata: dunque per tenere in piedi la stessa baracca servono sacrifici.