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Questo articolo è stato pubblicato il 01 dicembre 2010 alle ore 06:36.
di Roberto
Perotti
Il problema di fondo dell'università italiana è molto semplice: accanto a migliaia di docenti che fanno il loro lavoro con passione e competenza, ve ne sono migliaia che non hanno né passione né competenza, ma non vi è alcun modo di prendere provvedimenti contro di essi. Il motivo è altrettanto semplice: tutto procede per anzianità, non c'è modo di premiare chi opera bene e penalizzare chi opera male. Tutto qui.
Ironicamente, la riforma ha provocato un vespaio di polemiche, ma fa poco per affrontare concretamente questo semplicissimo problema di fondo. In buona parte essa si concentra sulla governance, attribuendo più poteri ai consigli di amministrazione e aprendoli agli esterni. Lo scopo è ovvio, e condivisibile: rompere le cricche accademiche, e sottoporle al vaglio di esterni. Ma questa scommessa fu già fatta con le fondazioni bancarie e le Asl, e persa: molte di loro sono diventate un refugium peccatorum dei notabili locali. In molti atenei il rischio di aslizzazione è una quasi certezza: non ci sono conseguenze se offro una posizione in cda al direttore della Cassa di risparmio locale per ingraziarmelo, o perché appartiene al mio stesso partito.
La riforma ha recepito il principio sacrosanto (che peraltro esisteva già, nell'istituto della conferma) per cui un docente deve passare per un periodo di prova prima di ottenere una posizione a tempo indeterminato. Ma la sua attuazione risente di un problema senza soluzione. In Gran Bretagna, se mi assume Oxford e dopo sei anni decide che non sono abbastanza bravo, posso sempre cercare un lavoro in un altro ateneo meno prestigioso. In Italia, se sono alla scadenza del periodo di prova e fallisco il concorso nazionale, sono fuori dal sistema universitario, anche se in qualche caso i miei colleghi, che mi conoscono meglio di una commissione nazionale, potrebbero avere dei motivi perfettamente leciti per tenermi. Il problema è sempre lo stesso: per evitare manfrine, si centralizza; ma centralizzare ha un costo, perché una commissione nazionale non è in grado di tenere conto di tutte le variabili individuali e locali. Tra sei anni assisteremo ad un contenzioso infinito, e come già succede oggi i Tar promuoveranno tutti, se non ci avranno pensato i commissari di concorso.