Storia dell'articolo
Chiudi
Questo articolo è stato pubblicato il 06 dicembre 2010 alle ore 08:35.
È un po' passata in secondo piano. La crisi dell'euro, gli scricchiolii dei debiti pubblici calamitano giustamente l'attenzione di tutti. La riforma del patto di stabilità è però all'ordine del giorno dei meeting europei di oggi e domani e serve a ricostruire fondamenta scosse da un sisma non ancora finito.
Quello originario, del 1977, era un patto "stupido" per Romano Prodi, presidente della Commissione nel 2002. Perché meccanico e non riusciva ad adattarsi a situazioni diverse. Quella stupidità – non tutti hanno voluto capirlo – era in realtà una garanzia, un modo di evitare che la discrezionalità di governi strutturalmente tentati dal deficit e dal debito prendesse il sopravvento sulle regole. L'unica riforma, finora, ha così attenuato i vincoli per i singoli stati ed è stata voluta da una Germania (e una Francia) che, in quel 2005, non era così appassionata al rigore come lo è oggi.
L'Europa ha quindi affrontato la crisi con un patto meno stupido, ma ancor meno efficace. Molti paesi hanno affrontato la tempesta con bilanci pubblici già in difficoltà e si sono poi appesantiti per le politiche di stimolo e per i salvataggi di banche che erano, e purtroppo resteranno, "troppo grandi per fallire". Se qualcuno, come la Grecia, ha mentito sullo stato dei suoi conti e qualcun altro si è lasciato andare, economie come quelle d'Irlanda e di Spagna, virtuose secondo i criteri di Maastricht, hanno poi messo Eurolandia in pericolo.
Il sistema, insomma, non ha retto. Forse perché non bastano regole e sanzioni poco efficaci se i governi si trovano poi intrappolati di fronte a richieste – rilanciare l'economia, salvare le aziende, salvare le banche, sussidiare i disoccupati – a cui, per motivi più o meno nobili, devono poi rispondere. Il risultato è sempre lo stesso: paesi meno virtuosi o più sfortunati pesano su quelli più virtuosi, che non sempre – la Merkel insegna – sanno gestire le pressioni dei loro contribuenti e la necessità di tener insieme il sistema.
Come valutare allora i passi che oggi e domani saranno compiuti dai Ventisette? Gli incontri sono tecnici, in vista di un'approvazione definitiva prima della fine dell'anno, e il grande compromesso politico è già stato raggiunto. La Germania non è riuscita a ottenere che una violazione del patto fosse sanzionata con la sospensione dei diritti di voto. È, anzi, riuscita a coagulare il dissenso di paesi severi con altri meno rigorosi: oltre che dalla Francia, il no è giunto da Spagna, Italia, Lussemburgo, Svezia, Danimarca, Polonia e Finlandia. Il ricordo di quanto avvenne nel 2005, quando Berlino fece in modo di non essere punita per le sue violazioni, ha pesato molto. La Germania, in cambio, ha però imposto un meccanismo di default che scarichi in modo semiautomatico sugli investitori – considerati "complici", in quanto finanziatori, dei governi indisciplinati – una parte importante della responsabilità delle violazioni del patto e delle regole della buona politica.