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Così la Cina estende la sua influenza economica in Cambogia, viaggio nell'avamposto di Koh Kong

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Questo articolo è stato pubblicato il 12 dicembre 2010 alle ore 20:27.

Taksin ha fatto base a Koh Kong, in Cambogia, per affermarsi quale Salvatore della Thailandia. La mancanza dell'h nel nome non è un errore. Non parliamo di Thaksin Shinawatra, l'ex primo ministro thai deposto da un colpo di stato nel 2006. Bensì di Somdet Phra Chao Taksin Maharat, Re Taksin il Grande. Il suo regno inizia nel 1767, quando riconquista Ayutthaya, sette mesi dopo che era stata presa dai birmani. Salpò con la sua flotta da Krung Thonburi, sulla riva del Chao Phraya, e sbarcò a Koh Kong (allora in territorio thai), da dove intraprese una lunga marcia per la distrutta capitale. È una storia svelata da antiche mappe presentate in un recente convegno a Bangkok.

Può cominciare così la storia di Koh Kong, che nelle mappe contemporanee del potere appare come l'ennesima «nazione dentro una nazione», terminale della risorgente influenza cinese in Cambogia, uno di quegli hub occulti da cui si diramano traffici e affari, punti d'intreccio nella trama di contrasti ed equilibri del sud-est asiatico.

Il nome stesso è ambiguo, non solo per le sfumature tra toponimi thai e khmer (la lingua cambogiana) e in queste stesse lingue. Ma perché si riferisce a una provincia cambogiana, a un'isola, a un villaggio sulla riva del fiume Kaoh Pao (o Kow Bpow o Metoek). Tutti in un territorio che delimita il confine sud-orientale tra Thailandia e Cambogia, compreso tra la costa orientale del golfo del Siam e le Cardamom Mountains – in khmer le Chuor Phnom Krâvanh -, scenario di foresta pluviale intersecato da fiumi che sfociano in delta coperti da mangrovie.

Per oltre due secoli dallo sbarco di Taksin il Grande, Koh Kong rimase ai margini del Grande Gioco che si svolgeva in questa parte di mondo. Poi, verso la metà del '900, proprio per il suo isolamento e la sua posizione tra mare e foreste, fu scelta dall'allora re di Cambogia Norodom Sianouk come buen retiro in un'atmosfera di languido abbandono tropicale.

«Veniva qua con le sue girlfriends» dice un vecchio indicando un rudere di villa. È una rovina dalla bellezza surreale. Restano intatte le porte di legno istoriato, una grande vasca da bagno, pezzi di pavimento di marmo, colonne ricoperte da tessere di vetro blu, il chiostro che circonda un giardino interno. Adesso le stanze sono diventate capanne, tra le colonne sono tese le amache, dove dormono i bambini, a guardia del portale d'ingresso c'è una scimmietta incatenata.

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Sul finire degli anni '70, la provincia di Koh Kong, in particolare le Cardamom Mountains divennero uno dei santuari dei khmer rossi. E nei vent'anni successivi nessuno osò metterci piede. Sia per timore degli ultimi, inarrendibili seguaci di Pol Pot, sia delle mine. Il che rese quel territorio uno dei meno sviluppati e contaminati, il «wild west» cambogiano, un covo per coltivatori di marijuana, traffico d'esseri umani, prostituzione e commercio illegale di legname.

Era l'ecosistema perfetto per i progetti di Thaksin Shinawatra, quando era ancora un tycoon delle telecomunicazioni e un politico in gloria, eroe del miracolo economico thailandese, salvatore della nazione dalla crisi delle borse asiatiche, uomo cui era stato pronosticato un futuro pari a quello di Lee Kuan Yew, il padre-padrone di Singapore, il profeta degli «Asian Values».

«Thaksin faceva affari qui prima, quando era il boss in Thailandia» sintetizza uno dei pochi taxisti di Koh Kong. In effetti, la sua connection con la Cambogia inizia nel 1998, quando la sua Shin Corporation istituì la società di telecomunicazioni Cambodia Shinawatra Co Ltd. All'inizio del 2000, poi, Thaksin pensò di trasformare Koh Kong nella "The Next Kong", l'Hong Kong del futuro. Una definizione degna della miglior agenzia di marketing coniata dal generale Tea Banh, attuale vicee-primo ministro cambogiano. Il progetto si articolava nella creazione di un centro finanziario e di entertainment, una special economic zone aperta a ogni commercio ma adattata all'era della globalizzazione.

Il partner cambogiano di Thaksin era un uomo simile a lui, non foss'altro per la comune origine cinese: Ly Yong Phat, conosciuto come «King of Koh Kong», proprietario del 20% delle piantagioni di zucchero (e delle rispettive raffinerie) della provincia, uno dei più potenti uomini d'affari del paese, strettamente legato al Cambodian People's Party, al potere da circa trent'anni. Come si legge nel sito della sua società, L.Y.P Group: «In breve tempo Sua Eccellenza Ly Yong Phat ha esteso la sua attività in nuovi settori con accordi in turro il mondo e diventando il più dinamico imprenditore del Regno di Cambbogia».

In riconoscimento di tanti meriti, nel 2006 sarebbe stato eletto senatore e avrebbe avuto la facoltà di estendere ulteriormente le sue proprietà nella provincia di Koh Kong. Nel 2000, comunque, era già delegato del governo per la provincia, consigliere economico del primo ministro Hun Sen e vice-presidente della Camera di Commercio cambogiana.

Probabilmente risale a quel periodo anche la voce, non confermata, che a Ly Yong Phat sia stata conferita la cittadinanza thai, col nome di Pad Supa o Phat Suphapha. In previsione del futuro sviluppo di Koh Kong, nel 2002 ha finanziato la costruzione di un ponte che sovrasta il delta del Kaoh Pao, connettendo il villaggio di Koh Kong alla strada che porta al confine con la Thailandia. È una striscia di cemento di 1.9 chilometri (il più lungo della Cambogia) e si dice sia costato 7.2 milioni di dollari. Sotto il ponte, percorso da poche auto, passano molto più numerose le chiatte di sabbia raccolta nell'estuario e destinata a nutrire la fame di terra su cui si espande la città-stato di Singapore. Un business dato in concessione a Ly Yong Phat.

Nel frattempo è stato realizzato quello che sembrava il progetto principale di Thaksin e Ly Yong Phat, quello che materializzava la scenografia dei loro sogni di grandezza: Il Koh Kong International Resort Club, mega-resort con annesso casino, a un centinaio di metri dal confine. È un complesso in stile sino-imperiale-tropicale, un partenone color pastello, contornato da colonnati e coronato da statue di divinità greche (almeno all'apparenza). Nella hall centrale, sotto una grande cupola, quasi a compensare gli dei esterni, troneggia una statua di Kuan Kung, detto anche il Generale Kuan, una delle più venerate divinità del Pantheon cinese, dio della guerra e protettore della rettitudine, della palestra, del teatro, della casa, degli affari. All'interno, tra saloni animati dalle luci e dai suoni di centinaia di slot machines, sale massaggi, palestre e bar, si apre un ristorante che vanta una collezione di bottiglie di vino etichetta "Chateau Mouton Rotschild" da 600 dollari l'una. «Probabilmente piaceva a Thaksin» commenta il maitre thailandese, che però non lo può assicurare dato che è arrivato qua da poco.

Già, perché il tycoon e politico thai, dopo la vendita della sua società alla Temasek Holdings di Singapore, dopo il successivo colpo di stato con conseguente fuga e incriminazione, dopo le richieste di estradizione, le pressioni del governo thai, il sequestro del patrimonio depositato in patria, si è ritirato da Koh Kong. Nonostante che nel 2009 sia stato nominato consigliere economico del suo "eterno e fraterno amico" Hun Sen, inamovibile primo ministro cambogiano, evidentemente lo stesso Hun Sen ha pensato che la sua poteva rivelarsi un'amicizia scomoda: sul finire dello stesso anno fonti non ufficiali hanno annunciato la decisione di Thaksin di congelare gli investimenti in Cambogia. Oltre ogni retroscena politico e diplomatico, sembra che il progetto del casinò si fosse rivelato troppo ambizioso e insufficiente a contrastare la concorrenza delle sale da gioco di Macao e dei nuovi casino di Singapore.

A quanto pare, Thaksin avrebbe proposto ai suoi amici di Dubai di partecipare all'affare, ma questi avrebbero rifiutato perché lo ritenevano molto poco vantaggioso. Ecco perché, oltre quella specie di castello disneyano che è il resort, oggi si apre il nulla. La zona economica speciale di Koh Kong è una landa deserta circondata da un muro già in rovina. Il villaggio di Koh Kong è poco più di un agglomerato di baracche sull'acqua – queste sì, versione in scala ridotta della Hong Kong anni '50. Tra strade di sabbia e pietre sulla riva del fiume si apre qualche guest house frequentata da backpackers in cerca dell'ennesima off the beaten road e da qualche viaggiatore di passaggio verso le spiagge a sud. Ai margini del villaggio le lampadine rosse e il baluginare dei televisori di una decina di baracche aperte su uno sterrato accendono il red-light district di Koh Kong.

Le prostitute, molte giovanissime, soddisfano i marinai indonesiani delle chiatte in sosta per 200 baht l'ora (2000 per la notte). La storia, però, non finisce così. The Next Kong dovrebbe sorgere in seguito a una versione locale dell'hangover, come quello che ha segnato il passaggio di Hong Kong a regione amministrativa speciale della Repubblica Popolare Cinese. Koh Kong dovrebbe diventare l'ennesima "country within a country", come ha scritto John Pomfret in un brillante articolo sul "Washington Post" per definire il "takeover" cinese della Cambogia.

Quaranta chilometri a nord-est di Koh Kong, nel Thmo Bang District, la China Gezhouba Group Corporation costruirà la Tatay Hydropower Station, un impianto idroelettrico comprensivo di due dighe che produrrà 246-megawatts d'energia. Sempre nella provincia di Koh Kong, sul basso corso del fiume Russei Chrum, un'altra compagnia di stato cinese, la China Huadian Corp, ha in progetto una diga da 338-megawatts. Entrambe dovrebbero essere pronte entro il 2014 e l'investimento totale è di oltre un miliardo di dollari. Con tanti progetti e soldi in circolo, quindi, è stato anche impostato un programma per lo sviluppo delle infrastrutture nella provincia e per la costruzione di un polo turistico.

Alla fine, Koh Kong diventa un esempio della strategia cinese in sud-est asiatico. Joshua Cooper Ramo, ex direttore di "Time", l'ha battezzata "Beijing consensus", in contrapposizione al "Washington Consensus", teoria degli anni '90 secondo cui gli Stati Uniti si assumevano il compito di spiegare alle altre nazioni come governarsi.

La Cina, invece, vuole proporsi come una nazione che non si affida ai tradizionali strumenti di proiezione del potere, bensì al "potere elettrico" dell'esempio. La teoria è stata ripresa in un saggio di Stefan Halper, professore di studi internazionali a Cambridge: "The Beijing Consensus: how China's Authoritarian Model will dominate the Twenty-First Century". Per dominare il secolo, i cinesi puntano a sovvertire l'infrastruttura internazionale controllata dall'Occidente costruendo un network di nazioni che non lo sfidino sul campo militare bensì su quello concettuale e politico. In realtà, però, il Beijing Consensus non appare fondato su un'etica rigorosa: il consenso è determinato dal fatto che il "modello autoritario di mercato" è più attraente del "vacillante capitalismo liberale".

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