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Smentita la concorrente che accusò Eni di tangenti

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Questo articolo è stato pubblicato il 11 dicembre 2010 alle ore 10:39.

Nella vicenda dei giacimenti petroliferi ugandesi del Lago Albert gli elementi della miscela esplosiva ci sono tutti: l'oro nero, l'affare da miliardi di dollari e dei governanti con un pedigree non esattamente al di sopra di ogni sospetto. E le polemiche che si trascinano da anni.


Il più recente sviluppo è arrivato ieri. La pubblicazione dell'ennesimo messaggio diplomatico americano da parte di WikiLeaks ha infatti portato alla luce accuse di mazzette pagate dall'Eni per entrare nel deal. Successivamente però contraddette dai fatti. Alla base di tutto è il resoconto di un incontro avuto il 14 dicembre 2009 dall'ambasciatore americano Jerry P. Lanier con Tim O'Hanlon, il vice presidente della Tullow, la società irlandese che aveva il controllo dei due campi petroliferi in questione assieme alla inglese Heritage Oil.
All'epoca di quell'incontro, l'Eni sembrava destinata a vincere la gara per l'acquisizione del 50% di quei campi messo in vendita da Heritage. La cifra offerta il 18 novembre 2009 non era stata da poco: 1,5 miliardi di dollari. Ma O'Hanlon aveva detto all'ambasciatore che per assicurarsi la vittoria l'Eni aveva pagato due ministri, quello della sicurezza Amama Mbabazi e quello dell'Energia Hilary Onek. E aveva spiegato come: attraverso una società di facciata creata a Londra e chiamata Tkl Holdings.
«Se le accuse della Tullow fossero vere - e noi crediamo lo siano - sarebbe uno sviluppo critico per il nascente settore petrolifero dell'Uganda», era stato il commento del diplomatico americano. L'ambasciatore aveva sottolineato anche che Exxon avrebbe potuto essere il partner di Tullow al posto dell'Eni. Glielo aveva detto lo stesso O'Hanlon, il quale aveva informalmente rivelato che la compagnia americana era nella short list di potenziali soci fatta dalla Tullow assieme a Total e alla cinese Cnooc.


Il problema è che né il registro delle società inglesi né i successivi sviluppi della vicenda confermano in alcun modo lo scenario presentato da O'Hanlon agli americani. Perché a Londra non sembra esistere alcuna società chiamata Tkl Holdings. Ma soprattutto perché, poco più di un mese dopo l'incontro nell'ambasciata Usa di Lagos e per la precisione il 17 gennaio 2010, Tullow decideva di esercitare il proprio diritto di prelazione sulla quota di Heritage e qualche giorno dopo l'Eni ritirava la sua offerta. Insomma, il giacimento è finito interamente nelle mani della Tullow. A dispetto delle supposte tangenti.

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Tags Correlati: Cnooc | Eni | Hilary Onek | Jerry P. Lanier | Londra | O'Hanlon | Reuters | TIM | Tkl Holdings | Total | Tullow

 

Quest'ultima contraddizione è stata messa in evidenza ieri dal ministro ugandese Onek, che in una dichiarazione alla Reuters ha detto: «Se abbiamo preso tangenti, come mai non abbiamo poi dato questi asset all'Eni?». Secca la reazione di un portavoce della compagnia petrolifera italiana: «Eni contesta le gravi affermazioni prive di ogni fondamento e ha dato mandato ai propri legali di avviare le azioni a tutela della propria immagine».
Il bello è che a un anno dall'accordo, Tullow non solo non ha ancora firmato il necessario accordo con un partner strategico - né Exxon né nessun altro - ma ha perso uno dei due campi, revocato dal governo ugandese per scadenza dei termini dei diritti. E di nuovo disponibile sul mercato.

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