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Pd in piazza: il premier se ne vada

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Questo articolo è stato pubblicato il 12 dicembre 2010 alle ore 08:12.

ROMA - Una piazza classica per la sinistra e, nonostante le incursioni del Pdl, è stato come un ritorno a casa. Piazza San Giovanni a Roma era piena di gente, di bandiere del Pd, di musica e di tutto ciò che serviva a rinsaldare uno spirito di appartenenza. Una sola cosa mancava: la chiamata alle urne per la vittoria. Già perché a tre giorni dal voto di fiducia su Silvio Berlusconi quello che normalmente ci si aspetta da una piazza di opposizione è la sfida decisiva, quella del voto. E invece Pierluigi Bersani ha dovuto far passare un altro messaggio. «Non avremo certo paura del voto, se capitasse ce la giochiamo e la vinciamo. Ma serve una risposta di stabilità che può venire solo da un governo serio di responsabilità istituzionale». A parte l'inedito di una piazza che invoca la sua riscossa in un governo tecnico, il popolo del Pd si è stretto intorno al suo leader, lo ha acclamato, applaudito al punto da commuoverlo. «Andiamo avanti che fa freddo», ha ripreso Bersani dopo una breve sospensione per il malore di una persona.


E riparte da Silvio Berlusconi facendo un riassunto di questi anni battezzati dal Cavaliere e da Tremonti: lo scudo fiscale, i condoni, il processo breve, il lodo Alfano «social card, Robin Hood, il rigore, tutte balle». Lo slogan è d'obbligo: «Il premier vada a casa. Ma di quanto tempo ha bisogno per intestarsi le colpe di un fallimento?». Una tirata anti-berlusconiana inevitabile a tre giorni da un voto di fiducia su cui il Pd scommette tutto nonostante non abbia il pallino di quel test. Gli sfaldamenti dei finiani preoccupano ma c'è ancora la convinzione che i numeri siano dalla loro parte. «Vergogna! Vergogna! Vergogna!», lo ripete tante volte Bersani, incita la folla a seguirlo, in un passaggio sulla compravendita dei voti. Ma lì poi chiude il capitolo-premier per passare a quello che il Pd vorrebbe per l'Italia.

Si comincia con la proposta che il Pd avanzerà al capo dello stato: «Siamo davanti a una emergenza economica e siamo nell'instabilità perché Berlusconi è l'instabilità: da martedì servirà un governo che garantisca una transizione ordinata, nuove regole elettorali, alcuni interventi urgenti in campo economico e porti il paese a un confronto elettorale». E poi c'è la proposta a tutte le forze di opposizione «quelle di centrosinistra e quelle di centro perché si prendano le loro responsabilità in un patto di governo e di riforme». Prima di declinare la sostanza di questo patto, il leader Pd fa una promessa che, per la verità, è quella che fanno tutti nel Pd dal 2008 in poi: «Non rifaremo l'Unione» di Prodi. E allora i due cardini della proposta per l'Italia di Bersani sono «riforma repubblicana» e «alleanza per la crescita fra istituzioni, lavoro, impresa, soggetti della conoscenza».

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È la riforma fiscale il perno del cambiamento, la chiave di volta per far ripartire il paese spostando il carico della tasse dal lavoro alla rendita finanziaria, imponendo una tassa sulle transazioni finaziarie e facendo pagare «alla finanza i danni provocati e non scaricandoli su chi non c'entra nulla». Fisco e poi liberalizzazioni, il suo cavallo di battaglia, quell'opera che Bersani cominciò da ministro dell'Industria e che ha visto perdersi per strada. E poi il lavoro, cuore di una proposta di sinistra che punta a ridimensionare il lavoro precario «che non dovrà più costare meno di un lavoro stabile» e il salario minimo «per garantire con la legge chi è senza garanzie». E poi i contratti. Anche se la Fiat di Marchionne non viene citata, il punto sta lì: la difesa del contratto nazionale. «Bene il decentramento dei rapporti sociali ma senza buttare la dimensione nazionale dei contratti perché il paese va tenuto assieme».
Infine, ancora la politica, ancora la critica al berlusconismo che si è tradotto in populismo, liderismo. «Toccasse mai a me, mai metterei il mio nome sul simbolo. Noi non dobbiamo suscitare passione per una persona, ma per la nostra Repubblica». Dopo aver ricordato i "padri" del centrosinistra da Prodi a Ciampi a Delors, la serata si chiude con una citazione televisiva. Bersani recita "Vieni via con me" di Paolo Conte che riporta a Fazio e Saviano entrati, così, nel Pantheon con gli altri. «Un comizio anni '50», ha detto Fabrizio Cicchitto del Pdl che si è reso protagonista con Massimo D'Alema di una polemica a colpi di P2 e fondo Oak nella vicenda Telecom. Senza contare l'affondo di D'Alema sulla compravendita di voti «di un imprenditore che già lo faceva ai tempi della Mammì».
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