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Questo articolo è stato pubblicato il 14 dicembre 2010 alle ore 06:37.
Perché silurare un ministro degli Esteri come Manuchehr Mottaki che non faceva ombra a nessuno? Un decreto del presidente Ahmadinejad ha annunciato ieri il suo licenziamento mentre il ministro era ancora in viaggio in Senegal. Una settimana fa, alla ripresa dei negoziati sul nucleare, il capitolo più spinoso della politica estera, Mottaki era ad Atene per un'innocua missione mentre erano altri a condurre il balletto diplomatico di Ginevra con la baronessa Ashton e il "5+1". Mottaki, un moderato estromesso dai grandi dossier, era da tempo nella lista dei partenti perché troppo vicino allo speaker del Parlamento Ali Larijani ma non gli hanno dato neppure una stretta di mano. Liquidato con un frettoloso ringraziamento «per i servizi resi alla nazione».
Il suo posto viene occupato ad interim da Alì Akbar Salehi, che lascia l'Agenzia dell'energia nucleare per diventare probabilmente il capo della diplomazia: può vantare l'immagine del vincente per aver annunciato, proprio alla vigilia dei negoziati di Ginevra, che l'Iran ha prodotto il suo yellowcake, la materia prima per il combustibile, ed è quindi in grado di completare da solo il ciclo atomico. Un successo che ha portato il neo ministro sulle prime pagine. Mottaki, al confronto, è una figura assai grigia, un cinquantenne pingue, con una rada barba bianca, senza slanci, che deve la carriera alla protezione della Guida suprema Khamenei: al vertice di Manama sulla sicurezza nel Golfo - in linea con la rottura delle relazioni diplomatiche con gli Usa - non ha neppure accennato un saluto al segretario di stato, la signora Hillary Clinton, e le ha voltato le spalle seguendo alla lettera il manuale del bon ton fondamentalista.
Mottaki è stato sacrificato perché Ahmadinejad ha bisogno più che mai di una squadra di governo forte, con personaggi popolari - Salehi è uno di questi - per dare una dimostrazione di coesione ed efficienza. Non dimentichiamo che Ahmadinejad, con le contestate elezioni del 2009, le proteste di piazza dell'Onda verde e la successiva repressione, ha trascinato l'Iran nella più grave crisi di legittimità dalla rivoluzione del 1979: persino la morte dell'imam Khomeini era stata accolta nel 1989 con meno traumi. Lo stesso Khamenei, secondo la pubblica testimonianza di un ayatollah, ha ammesso che confermare il risultato del voto si era reso necessario «per evitare il crollo del sistema».