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Questo articolo è stato pubblicato il 22 dicembre 2010 alle ore 08:13.
Sarà stato il soprannome, Vecio, sarà stato quell'aspetto un po' agé anche quando da assistente a Messico 70, da coordinatore tecnico a Germania 74 e infine, da commissario tecnico in Argentina, Spagna e Messico, era giovane d'età. Ma l'etichetta appiccicata al gran friulano è stata sempre quella di un uomo del passato, del calcio che fu. Niente di più sbagliato. Enzo Bearzot del conservatore non aveva niente. L'uomo di calcio Bearzot, anni luce prima di Trapattoni e Capello, ha reinventato il cosiddetto calcio all'italiana. Due terzini che attaccavano, un libero centrocampista aggiunto, una squadra che si stringeva in pochi metri - corta diremmo adesso - e ripartiva, palla a terra, con le ali. Quattro giocatori con spiccate doti d'attacco, altro che catenaccio, e un centrocampista sempre pronto a inserirsi. Moderno, modernissimo. Perché, e qui era vecio, la sua modernità poggiava su una solidità culturale e di valori quasi sconosciuta nel pallone. Uomo di grandi letture, sapeva essere padre, educatore e maestro con i suoi calciatori. Il termine gruppo, nel suo senso più moderno, nacque in Spagna. Solo contro tutti per la squadra e campione del mondo. In aereo con Pertini a giocare a scopone. Ci mancherai Enzo. Vecio solo nel soprannome.