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La lettera di Miotto dall'Afghanistan: visto nonno, che te te sia sbaia'

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Questo articolo è stato pubblicato il 31 dicembre 2010 alle ore 19:01.

«Siamo il primo mezzo della colonna, ogni metro potrebbe essere l'ultimo, ma non ci pensi. La testa è troppo impegnata a scorgere nel terreno qualcosa di anomalo, finalmente siamo alle porte del villaggio... Veniamo accolti dai bambini che da dieci diventano venti, trenta, siamo circondati, si portano una mano alla bocca ormai sappiamo cosa vogliono: hanno fame». Con queste parole l'apino Matteo Miotto descriveva la sua esperienza come militare in Afghanistan. Nella lettera pubblicata dal sito del Gazzettino Matteo ringraziava in Italia quanti «vogliono ascoltare i militari in missione, e ci degnano del loro pensiero solo in tristi occasioni, come quando il tricolore avvolge quattro alpini morti facendo il loro dovere».

«Corrono giorni in cui identità e valori sembrano superati, soffocati da una realtà che ci nega il tempo per pensare a cosa siamo, da dove veniamo, a cosa apparteniamo...». «Come ogni giorno - diceva - partiamo per una pattuglia. Avvicinandoci ai nostri mezzi Lince, prima di uscire, sguardi bassi, qualche gesto di rito scaramantico, segni della croce... Nel mezzo blindo, all'interno, non una parola. Solo la radio che ci aggiorna su possibili insurgents avvistati, su possibili zone per imboscate, nient'altro nell'aria. Consapevoli che il suolo afghano è cosparso di ordigni artigianali pronti ad esplodere al passaggio delle sei tonnellate del nostro Lince».

Matteo aveva anche parole di grande comprensione e ammirazione per la popolazione afghana. «Questi popoli di terre sventurate, dove spadroneggia la corruzione, dove a comandare non sono solo i governanti ma anche ancora i capi clan, questi popoli - sottolineava - hanno saputo conservare le loro radici dopo che i migliori eserciti, le più grosse armate hanno marciato sulle loro case: invano». «L'essenza del popolo afghano - rifletteva il giovane alpino - è viva, le loro tradizioni si ripetono immutate, possiamo ritenerle sbagliate, arcaiche, ma da migliaia di anni sono rimaste immutate. Gente che nasce, vive e muore per amore delle proprie radici, della propria terra e di essa si nutre». «Allora - proseguiva la lettera - riesci a capire che questo strano popolo dalle usanze a volte anche stravaganti ha qualcosa da insegnare anche a noi».

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«Quel poco che abbiamo con noi - scriveva Matteo - lo lasciamo qui. Ognuno prima di uscire per una pattuglia sa che deve riempire bene le proprie tasche e il mezzo con acqua e viveri: non serviranno certo a noi. Che dicano poi che noi alpini siamo cambiati».

«Mi ricordo – scriveva ancora - quando mio nonno mi parlava della guerra: ‘brutta cosa bocia, beato tì che non te la vedarè mai...' Ed eccomi qua, valle del Gulistan, Afghanistan centrale, in testa quello strano copricapo con la penna che per noi alpini è sacro. Se potessi ascoltarmi, ti direi ‘visto, nonno, che te te si sbaià'».

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