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Sudan, conto alla rovescia per il referendum sulla secessione del sud - Juba nuova capitale. Foto

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Questo articolo è stato pubblicato il 08 gennaio 2011 alle ore 10:22.

Non che i passanti o i venditori prestino troppa attenzione a quello strumento ai loro occhi bizzarro. Ma il conto alla rovescia procede inesorabile. L'orologio nella caotica piazza lima minuto dopo minuto il tempo che separa il Sud del Sudan dal grande evento: il referendum. L'attesa consultazione elettorale , con ogni probabilità, sancirà la secessione del più esteso paese dell'Africa, grande quasi otto volte l'Italia.

Il reportage fotografico del Foreign Policy

Se tutto andrà come previsto - da queste parti la cautela è d'obbligo - alla lista dei paesi membri Nazioni unite si aggiungerà così lo stato numero 193; il Sudan del Sud (già semi-autonomo), grande quasi tre volte l'Italia, coperto di vegetazione e ricco di petrolio, ma senza sbocchi al mare. Il nome del vicino dovrebbe restare Sudan , o forse Sudan del Nord, un territorio in larga parte desertico ma con un lunga costa e un grande porto. Il neonato paese, otto milioni di abitanti, sarà a maggioranza cristiana e animista e avrà per capitale Juba. Il secondo (30 milioni), di etnia araba e musulmano manterrà il suo centro nevralgico a Kahrtoum. Sul monitor dell'orologio le fila di zeri si allungano. Ora è questione solo di poche ore. Poi i sudanesi di Juba si riverseranno negli spartani seggi elettorali aggrappati alla speranza che l'angolo dimenticato dal mondo, la poverissima terra martoriata da 50 anni di guerra interrotti da pochi anni di pace, possa finalmente risollevarsi. Secessione, urlano. Indipendenza, ripetono come un ritornello. Libertà, libertà per tutti, cantano a voce alta.

Non sono dimostranti arrabbiati, tutt'altro. Come comunicare loro quanto presagisco da tempo? Come dirgli che, al di là delle discriminazioni da parte della comunità musulmana del nord, la vita della maggior parte di loro sarà sempre la stessa: durissima? Non si passa dalla miseria più nera al benessere nell'arco di un giorno. Né di un mese, neppure di un anno. Solo un miracolo – e tanta tantissima volontà da parte di tutti, inclusi gli stranieri – riuscirebbero forse a dimezzare il vertiginoso tasso di analfabetismo, 80% degli otto milioni di abitanti del sud. Ci vorrebbero moltissimi aiuti internazionali e tanta attenzione per scoraggiare la corruzione potenti , e far sì che nasca un sistema sanitario dignitoso, e non quello attuale dove isolo il 6% ha diritto a ospedali decenti. E quanti sforzi per dimezzare quella che viene definita grave soglia d povertà (55% ella popolazione) o ridurre la malnutrizione (più di un abitante su tre), o migliorare l'accesso all'acqua potabile (un privilegio solo della metaà degli abitanti)? E solo uno sforzo altrettanto immane riuscirebbe a creare classi dove c'è un insegnate ogni 60 bambini.

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Loro non sembrano pensarci, forse lo ignorano o preferiscono indulgere nel contagioso entusiasmo. Meglio così. E' molto più interessante ascoltare i loro sogni. Anche quelli che fanno sorridere. Come quello di Francois, che sogna strade asfaltate per percorrere con il suo carico di verdure i 50 chilometri che dividono il suo villaggetto nella savana alla grande città Juba. C'è ci confida in rapporti amichevoli con gli stati vicini, Uganda e kenya, e un commercio fiorente. Chi immagina di andare a studiare a Nairobi, chi sogna di andare all'università di Juba, chi di acquistare una casa, magari una addirittura con in servizi sanitari, se non all'interno, a pochi metri nel cortile. Juba freme, ma riesce comunque a contenere la sua impazienza.

Per assaggiare la caotica città che si è gonfiata negli ultimi cinque anni, la moto-taxi è il mezzo migliore. Costa poco, si ferma dovunque, non ha problemi di parcheggio e se ne lascia una e si trova immediatamente l'altra. I pochi taxi neanche parlarne, tutti presi d'assalto dai giornalisti, dai diplomatici e dagli operatori umanitari di mezzo mondo rimasti senza il loro fuoristrada privato. Certo il modo di guidar all'inglese disorienta. Si scambia destra per sinistra. I caschi non esistono – in senso letterale, e nemmeno per il conducente – così come le frecce di segnalazione. Qui si usa solo il clacson. premendolo a lungo per protestare, in modo leggero , con un semplice colpetto, per segnalare la svolta.
E Juba si rivela . Case piatte, tanta polvere, strade asfaltate – sono solo 6mila chilometri in tutto il paese) .

Curioso. I mezzi più diffusi sono soprattutto grandi e costosi fuoristrada. impossibile non notare il contrasto tra gli sgangherati minibus stracolmi che non hanno le portiere per farci stare il maggior numero di persone. Non c'è un centro in senso proprio, non c'è un periferia. Gli esaptraiti stranieri sono molti, per una città si questo tipo. Eppure non se ne vede nemmeno uno nei mercati affollati, dove l'odore dei cibi si confonde a quello delle bestie,. Avvolte dal fumo, a Konyo Konyo donne decisamente corpulente cucinano in enormi pignatte delle zuppe . Urlano per richiamare i clienti. lo stesso fanno altri venditori. Un mantra a più voci, tutto si mischia e restituisce un'atmosfera surreale, che disorienta.
A Juba non esistono numeri civici, bensì luoghi di riferimento: come il ministero, l'ufficio postale, il central bar ecc, ecc. Luoghi in cui la gran parte della popolazione non ha mai messo piede.

In principio diffidenti, come chi non ha visto altro che violenza nella sua breve vita, i sudanesi si rivelano poi molto cordiali. Capaci anche di azioni di grande generosità con chi sta molto meglio di loro, e con chi sta peggio.
Come i molti profughi del sud, che continuano a riversarsi nella capitale del sud e nelle are vicine. I flusso è un fiume in piena. Nell'altro stato, quello musulmano, ne vivono circa 2 milioni di sudanesi del sud. "Siamo trattati come cittadini di seconda classe – si lamenta john, agricoltore, appena arrivato dopo un viaggio di sette giorni con al seguito la moglie e i suoi sei figli ", Siamo ritornati nel nuovo stato. finalmente il nostro stato". Altri suoi compagni di viaggio confessato di esse fuggiti per paura di rappresaglie al nord dopo il referendum. Molti di loro dormono in campi profughi e sopravvivono solo grazie agli aiuti internazionali.
Ritorno òl suntuoso palazzo del presidente, dove ho incontrato alcuni ministri. Il contrasto con tutto ciò che sta fuori dal perimetro del giardino protetto dalla guardie presidenziali è difficile da descrivere. Sui muri, sulle motociclette, sui parabrezza o sui lunotti delle macchine si vede sempre il palmo della mano aperta, con le dita tese. Accanto la scritta secessione. E' uno dei due simboli su cui 3,4 milioni di sudanesi del sud dovranno premer il dito tinto nell'inchiostro. L'altro invece ritrae due mani che si stringono accompagnato dalla scritta unità.

Due simboli che non potevo essere più semplici. Che potessero far votare chi non sa leggere. Il referendum durerà almeno sei-sette giorni.
A Juba basta poco per rendersi conto di come andranno le cose. I segnali con la mano aperta si vedono dappertutto. Sulle magliette dei bambini, sui cruscotti delle auto arrugginite, nell'affollato mercato. Il simbolo delle due mani congiunte lo si vede davvero poco, e quando c'è spesso è sfregiato. Chiedo per strada: Cosa vuol dire la mano aperta con le dita distese? Qualcuno sottolinea che significa stop, no all'unita', fermi. Qualcun altro preferisce la versione soft: "vuol dire bye bye Khartoum", dice sorridendo. Un segno che ripetono tantissimo giovani. Bye Bye Khartoum.

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