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Questo articolo è stato pubblicato il 11 gennaio 2011 alle ore 09:44.
L'ultima modifica è del 11 gennaio 2011 alle ore 07:41.
Nadra, 23 anni, facoltà di architettura, esile e con lunghi capelli neri, stringe un cartello: «Libertà per i compagni in carcere». Con altri 500 studenti dell'università Mannouba, alla periferia occidentale di Tunisi, tenta di raggiungere le strade del centro ma polizia ed esercito costringono i manifestanti a restare sul posto. Non si va né avanti né indietro: uno stallo che ai giovani tunisini sembra la metafora di un regime.
Questa però è la prima volta che la protesta, esplosa all'interno del paese, entra anche nella capitale. Nadra, un bel nome che significa “cosa rara”, e i suoi compagni hanno appeso all'università la lista dei caduti negli scontri dei giorni scorsi: 60 nominativi, contro un bilancio ufficiale di 14 morti. La risposta del governo non si è fatta attendere: molte scuole e università saranno chiuse e gli esami rinviati.
Il sistema Ben Alì, 75 anni, al potere dal 1987, è in crisi: questa forse è la sfida più seria che il presidente deve affrontare dalla minaccia islamica degli anni Ottanta, quando con 30mila arresti e una repressione senza quartiere evitò alla Tunisia il contagio integralista che travolse la confinante Algeria, ricca di gas e petrolio. Il sistema, legittimato da quella esperienza, nacque allora: in cambio di stabilità, sicurezza e di qualche progresso economico i tunisini dovevano accettare una democrazia di facciata dove ogni dissenso veniva duramente censurato e represso.
Una sorta di modello cinese sulla sponda Sud del Mediterraneo ma economicamente legato a doppio filo all'Europa: il 75% delle esportazioni è diretto verso l'Unione, qui ci sono 2.500 imprese straniere che hanno delocalizzato la produzione, soprattutto nel tessile, 750 sono italiane, invogliate a trasferirsi dai bassi costi della manodopera, con salari medi mensili di 200 euro, e dagli incentivi fiscali.
Tra queste società, grandi e piccole, ci sono marchi come la Benetton che ieri è stata costretta a chiudere lo stabilimento di Kasserine, epicentro degli scontri a 300 chilometri da Tunisi.
L'Italia è con quasi 5 miliardi di euro di interscambio il secondo partner commerciale dopo la Francia. Soprattutto è il paese che ai tempi di Craxi e Andreotti ha insediato Ben Alì, come testimoniò in modo inequivocabile il capo del Sismi, Fulvio Martini, alla commissione stragi del Parlamento il 6 ottobre 1999: «Negli anni 1985-1987 noi organizzammo una specie di colpo di stato in Tunisia, mettendo Ben Alì alla presidenza e sostituendo Bourghiba, ormai senescente, che voleva fuggire». Per questo trattiamo con i guanti di velluto Ben Alì che in compenso ha aperto il mercato tunisino alle imprese offshore italiane e alle nostre banche.