Questo articolo è stato pubblicato il 15 gennaio 2011 alle ore 08:12.
Forse hanno toccato ferro, incrociato le dita o fatto altro tipo di scongiuri. Sta di fatto che gli investitori di tutto il mondo, speculatori inclusi, hanno deciso di porre grande fiducia sulla riunione dei 17 ministri europei delle finanze che si terrà a Bruxelles il 17 gennaio alle ore 17. È tutta la settimana che quella data, con buona pace della superstizione sul numero 17, è attesa con grande speranza: i ministri europei potrebbero infatti avviare l'iter per rafforzare il fondo salva-stati (il cosiddetto European financial stability facility) che sin dalla sua nascita è stato considerato insufficiente. È per questo che gli investitori di tutto il mondo sono tornati questa settimana ad accumulare titoli di stato europei, a comprare euro, a investire sulle borse del Vecchio continente. Certo, a favore dei mercati hanno giocato anche le positive aste di titoli di stato portoghesi e l'accenno del presidente Bce – per la prima volta dal 2008 – al rischio di inflazione. Ma il vero carburante del mercato è stato un altro: la speranza che il 17, lunedì, i ministri delle finanze rafforzino il fondo salva-stati. Che trovino un accordo.
La speranza degli investitori è tangibile nelle quotazioni di tutti i mercati. Le obbligazioni dei paesi del ClubMed hanno ridotto di gran lena il differenziale rispetto ai rendimenti dei sicuri titoli di stato tedeschi: in una settimana l'Italia ha abbassato il cosiddetto «spread» di 33 centesimi, la Spagna di 34, il Portogallo di 47. Ancora meglio è andata all'Irlanda, scesa di 92 centesimi. Siamo sempre su livelli alti, certo. Ma la febbre è calata. Contemporaneamente l'euro è volato, guadagnando in sette giorni il 4,5% sul dollaro e il 4,2% sul franco svizzero. Idem per le borse: Madrid ha recuperato l'8,6% e mediamente quelle europee hanno ripreso il 4 per cento.
La Germania apre lo spiraglio
Il motivo di tanta euforia nasce dalla politica. In passato, ogni slancio a favore di un potenziamento dei meccanismi di salvataggio era sempre stato ostacolato dalla Germania. Il cancelliere Merkel, forte di sondaggi che danno il 60% della popolazione contrario a nuovi salvagenti per gli stati in crisi, ha sempre posto il veto. «Nein». Nessuno avrebbe mai immaginato che qualcosa potesse cambiare: eppure, proprio ora che la Germania si prepara a sette importanti elezioni in altrettante Regioni, questo granitico veto si è ammorbidito. All'ipotesi di rafforzare il fondo salva-stati nella prossima riunione dell'EcoFin (lanciata come indiscrezione martedì dal Wall Street Journal e confermata mercoledì dal commissario europeo Olli Rehn) il governo tedesco ha prima posto un muro, poi ha affermato l'impegno a sostenere l'euro e infine ha aperto addirittura uno spiraglio. Il governo tedesco non ha mai detto «sì, si farà». Ma non ha neppure posto il veto assoluto come sempre. Evidentemente ha capito che, anche per difendere le sue esportazioni (in gran parte indirizzate verso l'area euro) e le sue banche (molto esposte sui paesi in crisi, l'Europa va sostenuta con maggiore forza.
La Grecia sotto pressione
È lo stesso premier George Papandreou, appena eletto, alla fine del 2009, ad avvisare il paese e la comunità internazionale: «La Grecia rischia la bancarotta. La situazione finanziaria lasciata dal precedente governo è gravissima». Atene diventa per tutti l'anello debole di Eurolandia: il deficit al 12,7% del Pil è il più alto dell'Unione dopo quello irlandese, il nuovo governo socialista tenta tra le tensioni sociali, di introdurre durissime misure di austerity per rimettere in ordine i conti. La ripresa non si vede. E i mercati sono impietosi, schizzano i differenziali di rendimento tra i titoli greci e i bund tedeschi. Le agenzie di rating tagliano i giudizi sul debito fino a junk, spazzatura. I timori sul debito sovrano si allargano a Spagna, Portogallo e Irlanda. L'Italia da subito appare più solida
È il due maggio, Papandreou (nella foto) annuncia l'accordo con Ue e Fondo monetario internazionale «per salvare la Grecia dal default». Via libera dell'Eurogruppo e dell'Fmi ad aiuti per 110 miliardi di euro in tre anni. Atene accetta «i sacrifici e il rigore» chiesti dalla Ue
La rete di salvataggio Ue
Ma «la crisi è sistemica», non rischia solo la Grecia, viene messo in dubbio l'impianto stesso della moneta unica europea, come dice il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet ai capi di stato e di governo riuniti a Bruxelles. Le riunioni dei leader europei sono febbrili tra domenica 9 e lunedì 10 maggio: è la notte nella quale viene salvato l'euro. Viene raggiunto un accordo sulla rete di salvataggio all'interno dell'Unione: in tutto 750 miliardi per frenare la speculazione e calmare i mercati finanziari e per prevenire il contagio dalla Grecia ad altri paesi periferici
L'Fmi contribuisce per 250 miliardi; altri 60 vanno a formare l'European Financial Stability Mechanism (Efsm): il meccanismo di stabilità per i 27 paesi Ue; i rimanenti 440 miliardi vanno invece all'European Financial Stability Facility (Efsf): il fondo a sostegno dell'Eurozona
Irlanda nei guai
Anche l'Irlanda - dopo aver negato a lungo di aver bisogno di aiuti internazionali - è costretta a trattare con l'Unione europea un prestito miliardario per salvarsi dalla bancarotta. Il deficit stimato dal governo è al 12% del Pil, ma sale al 32% se si considerano gli interventi pubblici straordinari a sostegno delle banche, a cominciare da Anglo Irish
Il piano di salvataggio concordato dal Commissione europea, Bce e Fmi con il governo irlandese di Brian Cowen (nella foto) a fine novembre prevede aiuti per 85 miliardi di euro destinati in gran parte a colmare le voragini del settore bancario. In cambio Dublino promette manovre di risanamento da 15 miliardi in quattro anni
I timori di Portogallo e Spagna
Mentre i leader europei discutono di come rafforzare i meccanismi anti-crisi e di come renderli permanenti, i mercati tengono sotto pressione Portogallo e Spagna. Lisbona ha un debito pubblico all'83% del Pil. A Madrid la crisi è scoppiata con la bolla immobiliare. In entrambi i paesi l'economia non cresce e la disoccupazione è molto alta. Sugli aiuti e sulle strategie, anche a sostegno della valuta, l'Europa continua a essere divisa tra "rigoristi" (con in testa il cancelliere tedesco Angela Merkel) e paesi periferici in difficoltà