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Tra gli sfollati del Sud Sudan arrivati per l'indipendenza, sognando un'America che non è di casa a Juba

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Questo articolo è stato pubblicato il 15 gennaio 2011 alle ore 20:20.

JUBA (SUD SUDAN) E' un groviglio umano, una macchia scura e scomposta a bordo di una chiatte fatiscente. Il vecchio scafo pare arrancare mentre risale la corrente del Nilo. Quando sbarcano hanno il volto stremato. Nemmeno la voce per gioire; il viaggio è durato 15 giorni. Centinaia di chilometri in bus e più di duemila sulle acque del Nilo. Sotto un sole rovente, sempre schiacciati per non finire in acqua, costretti a dormire uno sopra l'altro, a razionare cibo e acqua. Con l'incubo di subire un agguato dai miliziani filoarabi o da bande di predoni.

Toccata terra il loro entusiasmo lascia presto spazio a un'espressione smarrita, delusa. Si accorgono che il sogno non è realtà. Che la vita nel loro nuovo Stato sarà altrettanto dura. Ancora prima hanno scorto la baraccopoli eretta da chi è partito pochi giorni prima di loro, ed è ancora lì, in attesa. Almeno mille sfollati sparsi tra cumuli di immondizia, tende stracciate, materassi gettati a terra e pile di oggetti di ogni genere. «Questo il nostro stato, è la nostra libertà, la fine di 50 anni di guerre e desolazione», ci confida George, 55 anni, un uomo tanto da magro che il vecchio e impolverato completo grigio, rammendato in ogni piega, sembra appartenere a un gigante. «Io non ho votato a Khartoum – confessa – ho ritirato la tessera ma poi ho avuto paura. Quando hanno minacciato la mia famiglia abbiamo raccolto i nostri averi e siamo fuggiti. il governo di Juba ci ha pagato il viaggio, ma siamo qua da quattro giorni e non abbiamo avuta alcuna spiegazione».

George non se la sente di festeggiare la fine dei sette giorni di referendum. Sono appena scoccate le cinque di sera, le urne sono chiuse. L'affluenza è stata ampia, un plebiscito, Il risultato è scontato. Il Sudan del sud si avvia a divenire il primo stato indipendente del 2011, il Paese Numero 53 del Continente africano, il 193° membro delle Nazioni Unite.
George è orgoglioso, ma è al contempo spaventato. Sulle braccia ha ancora i segni delle percosse subite dalla polizia quando è stato sorpreso a bere dell'alcool a Khartoum. A George l'alcool piace parecchio, lo si vede dalla sua andatura barcollante, lo si sente dal suo alito.

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Tags Correlati: Elezioni | Ibrahim Haliil | Juba | Nilo | Ong | Onu |

 

Poco più in là, in un groviglio di letti arrugginiti, enorme pignatte sporche, farina sparsa per terra, Anne cerca disperatamente del latte in polvere per il suo piccolo di pochi mesi. E' terminato, dovrà attendere domani mattina. Quando racconta la sua storia abbassa lo sguardo. E' fuggita con il marito e i tre figli da un povero quartiere di Khartoum, perché era spaventata. E' tornata a sud perché era stanca della vita nel Nord. Stanca di essere trattata come un cittadina di seconda classe. Stanca di dover cedere il posto a un robusto giovane arabo anche quando il suo ventre era così gonfio che le doglie potevano essere questioni di poche ore. Stanca di essere chiamata negra, o, schiava. Stanca di essere a volte discriminata per la sua religione cattolica in un paese musulmano che si appresta a divenire ancor più islamico. Stanca- racconta – di essere sovente respinta nelle cliniche, con qualsiasi scusa banale. I venti anni trascorsi a Khartoum le hanno restituito solo un volto segnato dalla fatica, e tanta amarezza. E ora, come tanti suoi compagni, si accorge che il Sud del Sudan non è l'America. «Non so dove andremo, quando andremo, se ci porteranno ancora le razioni di cibo. Sono spaventata», ammette.

I nuovi sfollati che hanno lasciato il Nord del Paese sapevano che sarebbe stato difficile. Non immaginavano così tanto. In mattinata decine di camion hanno trasportato i loro averi negli stati a occidente. Camion carichi di letti, materassi alla vista inservibili , poltrone sgualcite, credenze piene di tarli, tavoli pericolanti e vesti stracciate. Poi un convoglio di pulman. Dai finestrini le facce tristi di chi è ancora non sa cosa gli riserverà il futuro.
L'imponente macchina internazionale per provvedere agli sfollati si è messa in moto, lentamente. Occorre riportare gli sfollati nei loro villaggi perché ne arriveranno altri. Su quasi due milioni di sudanesi del sud che vivono al Nord ne sono arrivati per ora circa 160 mila «Meno di quanti ci aspettassimo», ci informano funzionari delle Nazioni unite . «Ma sul Nilo sta scendendo verso sud una chiatta dietro l'altra, senza soluzione di continuità». Potrebbero essere il doppio, e chissà forse anche 600mila in pochi mesi. «Se sarà così rischiamo di non avere cibo né spazio a sufficienza».

Poche decine di metri e si attraversano le cancellate del porto. La caotica Juba, capitale del nuovo Stato, si mostra in tutta la sua brutale contraddizione .Ristoranti, hotel, anche strade asfaltate, affollate. Negozi gonfi di merci, Ma tra un palazzo di cemento e l'altro si insinuano linee di disperati che dormono su sacchi di iuta. Nelle periferie, in ogni angolo di verde cominciano a sorgere tendopoli improvvisate. Le auto sono quasi tutte grandi fuoristrada, le vetture degli espatriati , dei funzionari delle Nazioni Unite, delle Ong, dei diplomatici. Contando militari e civili il Sudan rappresenta la missione più grande le Nazioni Unite, con un costo stimato intorno al miliardo di dollari l'anno. Migliaia di stranieri. Centinaia di milioni di dollari ce consumano con avidità merci stranieri, proibitive per la maggior parte dei sudanesi. Soldi che nutrono la galoppante corsa edilizia. Che gonfiano gli affitti con prezzi da capitali europee, se non di più.

Qualcuno è triste, qualcuno festeggia. Perché l'indipendenza, un sogno coltivato 50 anni - mezzo secolo di guerre intervallato da pochi anni di pace - si sta realizzando. La maratona elettorale è finita. In un salone gremito di giornalisti stranieri, l'anziano Ibrahim Haliil, il presidente della Commissione che, tra mille difficoltà, ha portato alla creazione del referendum, racconta quel successo in cui nessuno ci sperava piùelettorale che ha organizzato il referendum racconta quel successo in cui nessuno ci sperava più: "Il tempo richiesto per organizzare il referendum, e appianare le divergenze - racconta - era di 24 mesi, siamo riusciti a farlo in cinque mesi, e nella mia vita non ho mai assistito a un'elezione così pacifica, trasparente, e apprezzata dagli osservatori internazionali".

La grande festa si farà il 6 o il 14 febbraio quando venerano diffusi i risultati ufficiali. I sudanesi del sud la chiamano "the long way to freedom (il lungo cammino verso la libertà), come recitano i tanti manifesti che tappezzano ogni angolo di Juba. La libertà dal nord è arrivata – la secessione - è arrivata, ma il cammino verso uno stato che ossa reggersi sulle proprie gambe è appena iniziato.

E se l'esodo da nord dovesse accelerare, allora sarebbero guai seri. il Sudan del Sud, amaggioranza cristiana e animista, è un paese la cui economia è in ginocchio, senza strade asfaltate, luce elettrica, acqua corrente. Per quanto povera Juba non è un microcosmo, piuttosto è un'isola solitaria circondata dalla miseria. Il Sudan del sud resta un Paese senza sbocchi sul mare, senza infrastrutture che importa tutto e non produce quasi nulla al di là del petrolio. Già, il petrolio. Per il Governo di Juba è la linfa vitale, rappresenta il 98% delle sue entrate. E' vero, il sud del sudan produce almeno i 2/3 dell'estrazione nazionale. Ma se vorrà trasportarlo dovrà usare gli oleodotti del nord. Se vorrà raffinarlo in benzina dovrà ricorrere agli impianti petrolchimici de nord, e se vorrà esportarlo dovrà farlo da Port Sudan, che appartiene al Nord, arabo e islamico. Senza un accordo con Khartoum il futuro è cupo.
Con l'85% della popolazione adulta analfabeta, oltre la metà che non riesce a guadagnare un dollaro, il 65% della giovane popolazione (quasi la metà ha meno di 18 anni) che non è mai andata a scuola, con stati (Il sud ne conta 10) che restano isolati per diversi mesi a causa delle piogge che rendono inagibili le strade , confidare in un benessere a portata di mano richiede una certa dose di ingenuità.

Amin raconta di essere di etnia azande non se ne cura. Ciò che lo preoccupa è sapere se il suo villaggio , nello Stato del Western Equatorial, sarà ancora lì. Se sarà ben accolto dopo così tanti anni, se troverà del terreno da coltivare per continuare a sopravvivere con la sua famiglia. «Alla fine abbiamo il nostro nuovo Stato, Dopo 50 anni abbiamo la nostra libertà. Svilupperemo il nostro paese», ripete. E lo ripete ancora, come un mantra. quasi volesse convincersene.

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