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Uomo d'ordine contro l'integralismo

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Questo articolo è stato pubblicato il 15 gennaio 2011 alle ore 08:12.

TUNISI - Tra gli spari di Avenue Bourghiba, davanti al ministero degli Interni, uno dei supporter di Ben Alì ricorda come il generale andò al potere. «Il giorno prima del colpo di stato - racconta Ahmed Achouri - la gente era scesa in piazza per sostenere l'anziano presidente Habib Bourghiba. Gridavano: "Ti difenderemo con il nostro sangue". Ma il giorno seguente, il 7 novembre del 1987, la folla inneggiava a Ben Alì che proprio qui davanti fece un gran discorso, promettendo ordine e libertà».


Questa, naturalmente, è la versione del fedele Ahmed. Ma si può aggiungere dell'altro. La testimonianza, per esempio, del capo del Sismi italiano, Fulvio Martini, alla commissione stragi del Parlamento il 6 ottobre 1999: «Negli anni 1985-1987 noi organizzammo una specie di golpe in Tunisia, mettendo Ben Alì alla presidenza e sostituendo Bourghiba, ormai senescente, che voleva fuggire». L'Italia di Craxi e Andreotti - uno capo del governo, l'altro ministro degli Esteri - ebbe quindi un ruolo di primo piano nell'ascesa di questo ex poliziotto che prese il potere senza spargimento di sangue con un colpo di stato definito con una certa ironia “medicale”, perché Bourghiba, anziano e malato, fu confinato a trascorre i suoi ultimi giorni davanti al mare di Monastir, con un certificato di demenza senile. Liquidarlo non era una questione così semplice: Bourghiba era stato l'artefice dell'indipendenza tunisina ottenuta con una complessa trattativa dalla Francia il 20 marzo 1956.

Ben Alì era un uomo di fiducia del vecchio presidente e si era conquistato la nomina a ministro degli Interni nella repressione della rivolta del pane del 1984, in una delle regioni più povere del sud dove aveva guidato con il pugno di ferro i reparti anti-sommossa. Poi Ben Alì era passato alla ”bonifica” delle università, arrestando migliaia di studenti con simpatie per i comunisti e gli islamici, che erano diventati la vera spina del fianco del regime. Fece arrestare anche il leader degli integralisti, Rashid Gannouchi, che oggi vive in esilio a Londra.

Nell'87 la campagna di dimostrazioni e attentati condotta dai fondamentalisti fu il colpo di grazia al regno di Bourghiba: Ben Alì prese in mano la situazione, ne fece torturare migliaia arrestandone 30mila e tagliando la testa alla leadership del movimento. Qualcuno finì con un tuffo in mare e una pietra al collo. Mentre in Algeria il Fronte islamico cominciava a dilagare, spingendo il paese al colpo di stato e a un decennio di orrendi massacri, Ben Alì salvò la Tunisia dal contagio: fu questo il suo trofeo più scintillante, sul quale ha fondato la legittimità di un potere durato 23 anni. Ben Alì, "cacciatore di islamici" si guadagnò per questo anche il rispetto all'estero: Europa e Stati Uniti per lungo tempo hanno visto in lui uno dei baluardi del laicismo nel Maghreb. Il presidente tunisino ne ha approfittato per avere in cambio mano libera all'interno da parte della comunità internazionale: per questo quasi nessuno dei leader occidentali gli ha mai rimproverato la repressione del dissenso, le elezioni presidenziali con incredibili plebisciti del 98%, la censura nei confronti di ogni mezzo di informazione e di espressione.

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Tags Correlati: Agip | Ahmed Achouri | Al Qaeda | Avenue Bourghiba | Ben Alì | Benetton | Eni | Europa | Fulvio Martini | Habib Bourghiba | Imprese | Laila Trabelsi | Maghreb | Piaggio | Rashid Gannouchi | SISMI | Snam | Tunisi

 

Parafrasando quello che disse Churchill sul maresciallo Tito si poteva dire che «Ben Ali era un figlio di buona donna ma era il “nostro” figlio di buona donna». Applaudito da tutti, quando nel 2004, dopo l'attentato di Al Qaeda alla sinagoga di Jerba, varò una legge anti-terrorismo che impiegò non soltanto contro gli islamici ma anche nei confronti dei militanti dei diritti umani. Ben Alì tagliava la barba degli islamici e bandiva il velo alle donne, nel tentativo di apparire una sorta di Ataturk del Maghreb che però mancava in gran parte di sensibilità politica: il consenso era strappato con la repressione e la corruzione dilagava. Il suo clan e la famiglia della moglie Laila Trabelsi si erano impadroniti dell'economia del paese depredandolo e soffocandolo. Rieletto per la quarta volta nell'ottobre 2009 è rimasto sordo a ogni invito alla liberalizzazione, soprattutto ai consigli ripetuti, anche americani, per preparare un'alternativa: voleva restare in sella fino al 2014, a 79 anni, con l'intento di superare il record del fondatore della repubblica. Ora è volato via con i suoi conti all'estero miliardari ma anche con disonore. Niente a che vedere con la dignità e il calibro di un Bourghiba.
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L'ITALIA IN TUNISIANumeri e nomi
In Tunisia ci sono oltre 800 aziende italiane o a partecipazione mista: si tratta soprattutto di imprese piccole e medie che impiegano circa 55mila dipendenti tunisini per 516 milioni di euro di investimenti. Vi sono inoltre circa 5mila italiani che lavorano nel paese non in modo fisso.
Al primo posto delle società italiane - si legge sul sito dell'Istituto del commercio estero - con 300 pmi ci sono tessile e abbigliamento (circa il 40%) ma vi sono anche grandi gruppi come Benetton, Miroglio-Gvb, gruppo Marzotto e Tacchini.
Capitolo infrastrutture: la nuova zona industriale di circa 200 ettari ad Enfidha fa capo alla Carta Isnardo Spa, società di costruzioni vicentina da cento anni nel paese. Il tratto autostradale Sfax-Gabes è realizzato dalla Todini e dalla siciliana Technics. L'umbra Colacem ha acquistato il cementificio CAT avviando una profonda ristrutturazione degli impianti. Importante presenza nell'agroalimentare con una joint-venture per la produzione di vino su 650 ettari da parte della siciliana Calatrasi
Fra le grandi imprese che hanno investito Eni (Scogat), Agip, Snam progetti, Fiat auto, Fiat Iveco, Fiat Avio, Piaggio. Impereglio, Ansaldo ed Astaldi, finiti i lavori per commesse, hanno lasciato la Tunisia.

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