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In Tunisia saccheggi e fuga dalle carceri. Al voto tra due mesi

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Questo articolo è stato pubblicato il 16 gennaio 2011 alle ore 15:42.

Quando verso il tramonto, quasi ventiquattro ore dopo la sua fuga, le gru dell'esercito si decidono a togliere con manovre lente ed esitanti i ritratti di Ben Alì da Avenue Bourghiba, il presidente che ha governato per 23 anni il Paese è già da un pezzo nell'esilio saudita di Gedda: intorno restano, come mine vaganti, gli spezzoni acuminati di un regime che sussulta ancora, tra raffiche di mitra e saccheggi, e non ha del tutto sciolto le vecchie fedeltà, cementate da decenni di complicità in un ordine poliziesco mantenuto con la forza e le minacce.

L'apparato repressivo qui non aveva la brutalità sanguinaria della macchina infernale di Saddam in Iraq ma si basava comunque su principi molto simili: mano dura e Mukabarat a volontà, cioè spionaggio e sorveglianza capillare della popolazione, con i servizi segreti sguinzagliati ovunque, dai caffè alle fabbriche, dalle scuole alle moschee.
Al posto del partito Baath iracheno o dell'Fnl algerino, in Tunisia dominava, e ovviamente resiste ancora, il Raggruppamento nazionale di Ben Alì: 2,5 milioni di iscritti, un tunisino su quattro. Sono migliaia i quadri politici, tra funzionari, deputati, sindaci, membri dei consigli provinciali e locali, che devono uno stipendio e un posto a un sistema ultra ventennale. Senza contare coloro che hanno occupato poltrone ben retribuite nelle istituzioni, nelle banche, nella cultura e nelle Università. Dal 14 gennaio, giorno delle manifestazioni e del golpe che hanno portato alla caduta di Ben Alì, è iniziato un lungo addio alla vecchia Tunisia assai tormentato: due presidenti ad interim in meno di 12 ore, prima è stato investito della carica il premier Mohammed Gannouchi, poi l'ha assunta il presidente del Parlamento Foued Mebazaa, altro esponente della vecchia guardia come Gannouchi incaricato di formare un governo di unità nazionale per convocare entro 60 giorni le elezioni presidenziali. Ghannouchi ha invece cominciato a sondare esponenti di partito e rappresentanti della società civile sulle riforme politiche da realizzare per «rompere definitivamente con il sistema politico del presidente estromesso Zine El Abidine Ben Ali». Lo ha riferito il capo del Forum democratico per il lavoro e le libertà, Mustapha Ben Jaffar.

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Tags Correlati: Ahmed Grira | Baath | Ben Alì-Trabelsi | Fnl | Forze Armate | Foued Mebazaa | Gammarth | Iraq | Leila Trabelsi | Ministero dell'Interno | Najib Chebbi | Rashid Amari | Saddam Hussein | Saker Matri | Tunisi

 

«Siamo d'accordo anche per chiamare osservatori internazionali e insediare una commissione d'inchiesta sui crimini del regime», informa con un certo ottimismo Najib Chebbi, capo del Partito democratico progressista indicato come uno dei futuri leader del Paese. Un'agenda politica da verificare ora dopo ora, che da quanto si legge sui messaggi di Facebook accontenta la piazza ma non l'ha ancora domata e convinta. «La rivolta di popolo che ha abbattuto Ben Alì si tiene in contatto su Internet e teme di essere tradita: è stato sul web che è partita la parola d'ordine per scioperare e reclamare le sue dimissioni», dice Zied el Heni, il più famoso blogger del Paese che aggiunge: «Quando Gannouchi ha assunto la presidenza c'è stata una mobilitazione sul web per chiedere l'applicazione della costituzione: cioè che la presidenza andasse al capo del Parlamento, non al primo ministro che può soltanto rivestirne temporaneamente le funzioni. Con Gannouchi a fare da supplente significava che Ben Ali restava presidente in esilio, un'assurdità». Il sistema Ben Alì si dibatte convulsamente e a 200 metri dall'Hotel Africa, protetto da una lastra di metallo alta cinque metri, si contano tre morti, tra cui un poliziotto. Siamo nel cuore della capitale con i tank delle forze armate piazzati sotto la Torre dell'Orologio, ma non è chiaro chi sta davvero proteggendo la nuova Tunisia.

L'esercito ha preso il comando di tutte le forze di sicurezza, sono stati arrestati diversi membri del clan familiare Ben Alì-Trabelsi e alcuni fedelissimi dell'ex presidente ma la repubblica dei gelsomini è ancora fuori controllo. Si spara, si saccheggia, si fugge in massa dalle carceri come a Biserta, Madia e Monastir, dove in una battaglia dai contorni oscuri sarebbero morte 60 persone nell'incendio della prigione. Sono in corso manifestazioni violente e scorribande ovunque: alcune spontanee, altre organizzate dai capi della polizia e dei servizi del vecchio regime. Uno scontro a fuoco fra membri delle forze dell'ordine è avvenuto ieri, secondo testimoni, in pieno centro a Tunisi, nei pressi del ministero dell'Interno dove si troverebbe in stato di arresto il consigliere per la sicurezza dell'ex presidente Ben Alì, Ali Seriati. Lo scontro avrebbe provocato almeno tre morti. Seriati è sotto arresto ma esponenti della Guardia Repubblicana - che ha lo stesso nome dei corpi di élite di Saddam Hussein - sono a piede libero, svestono la divisa e imbracciano le armi ignorando gli ordini del ministro degli Interni Ahmed Grira. In questo Paese i poliziotti sono 200 mila, i militari 25 mila, dieci volte di meno, e non bastano a tenere l'ordine. Per questo l'altra notte le forze armate, con risultati ancora incerti, hanno preso il comando della polizia. Sia nella capitale che fuori da Tunisi, dai sobborghi eleganti di Gammarth e La Marsa fino alle periferie operaie di Ettedameh, dove si alzano nuvole di fumo nero, c'è confusione. Chiedo a un ufficiale se sa qual è il capo di stato maggiore ma non è in grado di rispondere. Rashid Amari, dimissionario dopo che si era rifiutato di sparare sui dimostranti, è tornato al suo posto.
A Gammarth un orizzonte cobalto dai riflessi di luce dorata confortava i soggiorni marini del clan: qui hanno assaltato, depredato e bruciato le ville dei Trabelsi e gli ultimi arrivati si accontentano come bottino anche degli infissi divelti dalle finestre. Si bruciano le macchine di famiglia e gli autosaloni di auto di lusso del genero Saker Matri, arrestato insieme a Moncef, Belhacem, Houssem, tutti fratelli della moglie Leila Trabelsi. Il sacco di Tunisi non è paragonabile a quello di Baghdad nel 2003 ma è un altro monito ai governi del mondo arabo e all'Occidente così amico di Ben Alì e così indifferente ai suoi fallimenti.

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