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Questo articolo è stato pubblicato il 19 gennaio 2011 alle ore 08:08.
Non aveva bisogno di fingersi depresso Lele Mora. Di ragioni per esserlo davvero ne aveva a bizzeffe in quella torrida estate 2010. La sua società, la Lm Management Srl, in via Pietro Nenni a Treviglio, l'11 giugno del 2010 era stata dichiarata fallita, con un passivo di circa 17 milioni di euro. Nei mesi precedenti erano naufragati tutti i tentativi esperiti di fronte al commissario liquidatore Bernardo Draghetti di tentare un concordato preventivo versando ai creditori il 30% del debito. Mora non era stato in grado di versare la fideiussione richiesta dal giudice delegato Roberto Fontana che avrebbe dovuto coprire i 2,5 milioni necessari a ottenere il via libera dei giudici. Per l'altra metà aveva provveduto a mettere a disposizione della procedura gli immobili conferiti nell'immobiliare Diana (intestata alla figlia).
A nulla era valso l'escamotage di presentare al commissario una polizza di un'improbabile società romena.
In quelle stesse settimane la Procura della Repubblica di Milano (pm Eugenio Fusco) aveva acceso un faro su di lui e su Fabrizio Corona per ipotizzati reati fallimentari.
Sempre a giugno giunge un ulteriore pessimo segnale per Mora. Il commissario Draghetti che aveva seguito passo dopo passo la procedura LM Management non sarebbe stato nominato curatore fallimentare della società. Un evento insolito per il Tribunale fallimentare. Di solito il professionista incaricato è quello che ha seguito la procedura dall'inizio. Allora non lo si sapeva ancora, ma nel novembre del 2010 Draghetti sarebbe stato arrestato per corruzione nell'ambito di un'altra procedura: quella di liquidazione coatta amministrativa della fiduciaria Bkn, di Guido Salvini.
Al suo posto veniva nominato un altro curatore: Salvatore Sanzo, avvocato, fama di intransigente. Ultima strada percorribile per Mora tentare di arrivare al concordato fallimentare. Dunque soldi. Un bisogno quasi disperato di soldi da versare rapidamente in modo da tacitare il curatore, ma soprattutto nel tentativo di ammortizzare il probabile colpo della Procura: la richiesta di rinvio a giudizio per bancarotta fraudolenta.
Ecco la ragione del crescendo della tensione nelle telefonate tra lui, Emilio Fede, e Giuseppe Spinelli. Telefonate effettuate tra l'agosto e l'ottobre 2010, in cui si parla di un prestito che Fede si sarebbe incaricato di richiedere direttamente a Silvio Berlusconi, perorando le ragioni dell'amico, sottolineandone la fragilità psicologica e la discrezione dimostrata in anni di collaborazione. Ovviamente un aiuto prestato non proprio a titolo gratuito. Ma leggendo le trascrizioni delle intercettazioni sembra che l'erogazione del denaro non sia "automatica" e rapida come auspicato dai protagonisti. Spinelli, descritto come un uomo «integerrimo» prende tempo.