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Questo articolo è stato pubblicato il 21 gennaio 2011 alle ore 06:39.
ROMA
Umberto Bossi rompe il silenzio. Lo fa a modo suo descrivendo il premier incontrato l'altra sera a Palazzo Grazioli come «un po' gibollato». I segni del Rubygate sono evidenti ma l'alleanza tra Lega e Cavaliere al momento tiene. A Berlusconi per il momento può bastare soprattutto in un giorno in cui deve scontare anche la presa di distanza della segreteria vaticana.
I sospetti che dentro il Pdl covavano sull'alleato si sono diradati dopo il vertice con il leader del Carroccio. Bossi però è preoccupato. Solidarizza con il premier, sostenendo che i giudici hanno «esagerato», avverte che a Berlusconi non ci sono alternative se non il ritorno al voto, critica perfino il Vaticano («facile parlare») ma allo stesso tempo chiede pubblicamente al Cavaliere di «abbassare i toni», plaudendo invece al «buon senso» del Capo dello Stato.
La Lega cerca di tenersi fuori dal caso Ruby e di portare a casa il federalismo. Ma teme le ricadute. E non solo parlamentari, sul federalismo. A insorgere contro le dure parole pronunciate dal premier nel videomessaggio di mercoledì non è più solo l'Associazione nazionale dei magistrati («affermazioni inaccettabili»). I sindacati di polizia pretendono le scuse da Berlusconi, che aveva parlato di perquisizioni «compiute con il più totale disprezzo della dignità della persona e della loro intimità». Il ministro dell'Interno, il leghista Roberto Maroni tace. Dalla questura di Milano fanno notare che da parte dei vertici della polizia e del Viminale non è arrivato alcun rilievo sull'operato degli agenti coinvolti nel caso Ruby. Ma questo è tutto.
Il richiamo di Bossi al premier ad abbassare i toni non può dunque essere sottovalutato. Berlusconi non vuole andare al voto e per questo continua a lavorare all'allargamento della maggioranza. Ieri è nato il gruppo dei responsabili, ma per venire alla luce il Pdl gli ha dovuto "prestare" due deputati. I rapporti di forza tra maggioranza e opposizione restano quelli fotografati dal voto di fiducia del 14 dicembre. Lo scarto dunque resta minimo e soprattutto il nuovo gruppo non è riuscito a modificare la composizione delle commissioni parlamentari, a partire dalla bicamerale sul federalismo dove resta decisivo il finiano Mario Baldassarri. Una tegola non da poco, anche perché la nascita del gruppo dei responsabili aveva come principale obiettivo proprio quello di mantenere il controllo delle principali commissioni più che dell'aula di Montecitorio.