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Battaglia al Cairo, Mubarak resta

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Questo articolo è stato pubblicato il 29 gennaio 2011 alle ore 08:11.


IL CAIRO. Dal nostro inviato
Ecco qui in piazza Tahrir, dove si combatte ancora a tarda notte tra raffiche di arma corta e di kalashnikov, un'altra rivolta araba, con meno gelsomini e più pallottole, esplosa mentre le diplomazie occidentali ancora si interrogavano pensose se la Tunisia avrebbe o meno contagiato il Nordafrica. Cinque morti al Cairo, 13 a Suez, uno nel Sinai, i feriti soltanto nella capitale sono un migliaio e il bilancio delle vittime appare destinato ad aggravarsi. È sceso in campo l'esercito che pattuglia con i blindati i punti strategici mentre il capo di stato maggiore, Sami Enan, si trova in visita negli Stati Uniti: pure lui è stato colto di sorpresa?
Mubarak parla nel cuore della notte per annunciare che scioglierà il governo ma resterà al suo posto per difendere l'Egitto, proteggere il popolo e l'unità della nazione: «Smettetela con la violenza». Il rais egiziano non fa concessioni.
Sotto lo sguardo enigmatico dei leoni di pietra che fanno la guardia al ponte sul Nilo, al tramonto di una giornata sanguinosa e forse anche di un anziano presidente, continua la battaglia che può cambiare l'Egitto, il mondo arabo e la mappa delle nostre certezze: quando una folla disarmata e inferocita che vuole cacciare Mubarak sfonda la prima linea delle truppe antisommossa e si apre un varco verso Midan Tahrir, la piazza della Libertà va a fuoco e fiamme.
Una nube nera avvolge la moschea di Omar Makram, il Museo egizio scompare alla vista, tra fumo e lingue di fuoco, si salva soltanto la sagoma inquietante del Mugamma, monolite di cemento imperforabile, "dono fraterno" dell'Urss a Nasser.
La cronaca è confusa e frammentaria ma non è facile, guardando questa piazza, continuare a scommettere su Mubarak mentre trascinano via i corpi dei feriti e le ambulanze sono scomparse. Non riesco neppure a immaginare quello che scriveranno del loro trentennale alleato i miei vicini di stanza americani nei dispacci a Washington: ma se questo è l'unico posto del Cairo dove internet continua a funzionare, nonostante il black out totale, forse lo devo a loro. È davanti al Mugamma, palazzo bianco in stile sovietico, che crolla il muro delle ultime difese della polizia, quando Hosni Mubarak ha già inviato l'esercito con i carri armati e proclamato il coprifuoco. Ma questo non serve ancora a fermare una furia che nella notte travolge ogni ostacolo, sembra non avere paura dei lacrimogeni, dei colpi d'arma da fuoco, degli spari, prima in aria poi ad altezza d'uomo. Un potere armato che oppone resistenza alle masse egiziane per qualche ora ma poi sembra liquefarsi, qui al Cairo ma anche ad Alessandria e a Suez.

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Tags Correlati: Abdel Moneim Said | Essam El Erian | Forze Armate | Giza | Hosni Mubarak | Ministero dell'Interno | Nilo | Nordafrica | Occidente | Omar Makram | Sami Enan | Stati Uniti d'America | Tunisia

 

Così come ieri non era bastato staccare la spina all'Egitto, chiudere internet e i cellulari, con l'idea di bloccare le comunicazioni e soprattutto il web, il motore che ha innescato, dopo la rivoluzione in Tunisia, anche questa rivolta araba. Non era mai accaduto che si fermasse tutto, neppure nella tetragona repubblica iraniana scossa dalla rivolta del 2009.
Ma quando niente funziona più e si vorrebbe imporre il silenzio nel mondo arabo sale la voce della strada che passa di bocca in bocca, di piazza in piazza, dal bazar di Khan el-Khalili ai moderni centri commerciali, dalla Cairo islamica ai salotti di Garden City, dalla metropoli soffocante sul Nilo, alla suggestiva Alessandria, per poi attraversare il canale di Suez fino ai beduini del Sinai sul piede di guerra, e questa voce, ancora più ingigantita, diventa alla fine un boato: «Mubarak vattene».
È quello che dicono subito, già all'inizio della mattina, davanti alla moschea della Retta Via a Giza: qui tutti aspettano Mohamed ElBaradei per la preghiera, il premio Nobel che poi verrà indirizzato, a forza, dagli agenti verso una marcia pacifica, lontana dal cuore degli eventi e che, successivamente, secondo alcune fonti, sarebbe stato arrestato. È un militante dei Fratelli musulmani, l'organizzazione fondamentalista - l'opposizione più forte del paese - il primo che osa parlarmi. «Sono qui per mandare via Mubarak e basta, solo questo mi interessa», dice Ammar, 32 anni, impiegato, barbuto quanto basta perché un agente in borghese tenti di portarselo via ma lui scappa come una lepre per i vicoli di Giza mentre dai minibus gli autisti urlano le loro fermate: «Zamalek, Mohadissin, Dokki». Soltanto dopo capirò che stanno mobilitando, a loro modo, la piazza, gridando la destinazione dei cortei.
I Fratelli musulmani hanno chiamato all'adunata: il venerdì della moschea è il loro grande appuntamento, non possono stare dietro le quinte come hanno fatto finora. Me lo aveva confermato il giorno prima anche Essam El Erian, uno dei loro leader, che però sentiva che oggi in piazza non ci sarebbe stato: «Devo capire se domani mi sveglierò ancora nel mio letto». E così è stato: nella notte, insieme a una ventina di capi del movimento e a centinaia di militanti, è stato arrestato secondo un copione collaudato da anni dal ministero degli Interni ma che questa volta non ha frenato l'ondata degli Ikhwan, i Fratelli.
Sono loro l'incubo occidentale e come accadde nel 1979, con la caduta dello Shah a Teheran, tutti temono che se Mubarak crollasse rovinosamente ne approfitterebbero per calare la cappa dell'oscurantismo sul Nilo, stravolgendo la carta geopolitica. Solo i più vecchi tra i Fratelli si ricordano che Reza Palhavi, morto in esilio, è sepolto proprio qui al Cairo: sono passati 30 anni, il mondo è cambiato e si spera anche il fondamentalismo egiziano, sconfitto e riformato in direzione più moderata dopo una lunga stagione di insurrezioni e terrorismo. Certo che se si andasse a elezioni regolari - cosa mai accaduta in Egitto - i Fratelli vincerebbero, per questo qui, e in generale in tutta la regione, l'Occidente continua a chiedere a questi regimi sclerotici le riforme, non necessariamente la democrazia. Ma forse ormai è tardi per dare consigli a Mubarak.
Chi non crede alla sua caduta è Abdel Moneim Said, direttore del giornale di regime, Al Ahram, e membro del Partito democratico nazionale di Mubarak. «Nel 1977 Sadat tagliò i sussidi e ci furono due giorni di rivolta, negli anni Novanta ci provarono gli islamici: queste sono convulsioni che l'Egitto ha già sperimentato: non è un paese fragile come la Tunisia». Said conta sul fatto che le forze di sicurezza sono sperimentate da anni di guerriglie urbane e sostenute dalle Forze armate, il vero ago della bilancia, il cuore del potere egiziano sin dai tempi di Nasser.
Saranno i militari, pensa Said, se le cose andassero male a salvare l'Egitto dal caos. Dobbiamo credergli?
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