Questo articolo è stato pubblicato il 29 gennaio 2011 alle ore 20:30.
La sera prima del mio incontro con Aung San Suu Kyi, prendo un taxi scalcinato fino all'antica pagoda di Shwedagon, dove tutto è cominciato. È qui che una mattina di agosto del 1988 la figlia del generale Aung San, eroe dell'indipendenza birmana, tenne il suo primo discorso importante, che l'avrebbe catapultata nel calderone della politica nazionale. Nonostante la sua naturale riservatezza e una folla eccezionale - un numero imprecisato fra 300 mila e un milione di persone - non mostrò alcun timore. Dietro di lei c'era un ritratto di suo padre, il Bogyoke o "grande leader", assassinato a 32 anni solo qualche mese prima che il suo sogno dell'indipendenza birmana si concretizzasse.
«Reverendi monaci e popolo», esordì Suu Kyi, all'epoca 43enne, chiedendo un minuto di silenzio per i tremila dimostranti per la democrazia trucidati in quel vorticoso mese di rivoluzione e soppressione. «In quanto figlia di mio padre, non potevo restare indifferente di fronte a tutto ciò che sta accadendo», disse lanciando quella che definì «la seconda battaglia per l'indipendenza nazionale». Per quanto cercasse la riconciliazione più dello scontro, il messaggio sotteso era chiaro. Suo padre aveva liberato la Birmania dagli inglesi. Lei avrebbe contribuito a liberarla dai generali.
Suu Kyi era tornata a casa non per entrare in politica, ma per assistere la madre morente. Se ne era andata dalla Birmania a 14 anni, quando sua madre aveva accettato un incarico da ambasciatrice a Nuova Delhi. Dopo l'India, Suu Kyi ha trascorso gran parte dei trent'anni successivi in Inghilterra, con lunghi periodi in Bhutan e negli Stati Uniti, tornando in Birmania solo per le vacanze. Ma non ha mai dimenticato il suo paese di origine e ha avvisato il marito, l'accademico Michael Aris, che un giorno avrebbe potuto essere costretta a rispondere all'appello del suo popolo.
Quel momento arriva in un tranquillo pomeriggio a Oxford, quando riceve una telefonata con cui la avvisano che sua madre ha avuto un ictus. «Mise giù il telefono e cominciò subito a fare i bagagli», avrebbe scritto più tardi Aris. «Ebbi il presentimento che le nostre vite sarebbero cambiate per sempre».
Due giorni dopo, Suu Kyi si ritrova all'ospedale di Rangoon, dove sua madre è ricoverata. L'ospedale è in subbuglio: ci stanno portando la maggior parte dei dimostranti feriti. Senza volerlo, Suu Kyi è finita nel bel mezzo della sanguinosa sommossa del 1988. Quando Ne Win, il numerologo e xenofobo che aveva governato la Birmania dal colpo di stato del 1962, annuncia l'intenzione di andarsene, Suu Kyi sente il richiamo della storia. Neanche un mese dopo, centinaia di migliaia di persone sarebbero affluite in massa verso la cupola scintillante di Shwedagon per sentire il discorso della bella figlia del loro eroe nazionale assassinato.
Nella mia breve permanenza a Rangoon, ribattezzata Yangon dai generali che hanno cambiato anche nome al paese in Myanmar, ho già intravisto più volte scorci magnetici di questa montagna d'oro, un'incredibile cono che svetta fra la vegetazione e i malandati edifici coloniali. Nella famosa descrizione di Rudyard Kipling: «Un mistero dorato si eleva all'orizzonte... La cupola d'oro disse, ‘Questa è la Birmania e sarà diversa da qualsiasi altra terra che conosci'».
Da vicino, Shwedagon è anche più magica di quanto non sia a distanza. Al tramonto, tutto, tranne il blu emozionante del cielo notturno, è bianco e oro. Ci si avvicina allo zedi dorato, imponente con i suoi 115 metri, passando fra decine di altri templi e stupa (cupole) minori. Il suono dei gong dei templi riverbera nell'aria mentre i fedeli chinano il capo meditando in silenzio. Si avvicina un monaco rasato con un abito rosso e l'occhio vispo. Ha parole di affetto per Gordon Brown, convinto sostenitore delle sanzioni alla Birmania, che evidentemente crede sia ancora primo ministro inglese. Quando gli chiedo cosa pensa di Suu Kyi, sussurra qualcosa che ho già sentito decine di volte nelle ultime ore. «Tutti amano la Signora», dice. «La Signora è molto coraggiosa».
Il mattino dopo mi preparo per il mio incontro con la Signora, come è universalmente nota, non senza una certa ansia. Ai giornalisti stranieri di solito non è consentito l'ingresso in Birmania. Quelli che riescono a entrare sanno che incontrare Suu Kyi significa cercare guai. Mi hanno avvisato che probabilmente qualcuno mi seguirà non appena lascerò la sede della Lega nazionale per la democrazia, dove faremo l'intervista. Un fotografo del Time che ha ritratto di recente Suu Kyi per una copertina, ha descritto in un video online l'inseguimento di due ore, a 140 chilometri l'ora, in cui è stato coinvolto, anche se ho qualche difficoltà a immaginare come sia riuscito a trovare un taxi in grado di raggiungere quella velocità nel decrepito parco macchine di Rangoon.
La mia prima preoccupazione è far uscire dal paese una trascrizione dell'intervista prima che me la sequestrino. Metto due registratori nello zaino (di cui uno da nascondere in un calzino dopo l'intervista), un paio di berretti e gli occhiali da sole per nascondere il volto. Mi sento vagamente ridicolo.
Quando il tassista si ferma davanti a quella che sembra una baracca malandata, penso che mi abbia portato nel posto sbagliato. Solo quando vedo la scritta National League for Democracy dipinta con tratto incerto sopra l'ingresso mi rendo conto di essere arrivato nel fragile cuore del movimento di libertà birmano. A testa bassa, entro rapidamente passando accanto a un gruppetto di uomini fermi sui gradini.
Non c'è servizio di sicurezza e mi ritrovo in una stanza lunga con delle panche da ambo i lati. Ci sono decine di persone sedute che parlano a bassa voce. Alle pareti, foto in bianco e nero del Bogyoke Aung Sang e altri che immagino siano i suoi Trenta compagni d'armi, gli eroi della liberazione addestrati dai giapponesi perché contribuissero alla cacciata degli inglesi. Mi rendo conto, troppo tardi, che qualcuno si è intrufolato dentro e mi ha fotografato di nascosto.
Alla fine, mi accompagnano su per una scalinata sudicia e angusta, che porta a una minuscola sala d'attesa. La vernice blu si sta spellando dalle pareti e dal soffitto e c'è una folla di sostenitori in fervente attesa fuori da una fragile porta di legno. Dietro, mi dicono - anche se ancora non ci posso credere - siede la Signora, come un Buddha in una nicchia nascosta di Shwedagon. Si apre uno spiraglio di porta e mi chiedono di entrare. Non faccio quasi in tempo a rendermi conto, che Aung San Suu Kyi, una delle donne più famose del mondo, è in piedi davanti a me.
«Mi dispiace. Mi dispiace molto», sta dicendo. Mi ci vuole qualche secondo per capire che si sta scusando per avermi fatto aspettare. Ci sediamo nel minuscolo ufficio, a distanza inevitabilmente ravvicinata. Indossa un sarong viola, una camicia di seta rosa appena operata e un bocciolo di gelsomino fra i capelli. La prima cosa che noto è l'intensità dello sguardo. È un po' invecchiata nell'ultimo periodo di arresti domiciliari (nel video il momento della liberazione), durato sette anni, dal quale è stata rilasciata due mesi fa (nel video il momento della liberazione). Ma potrebbe essere tranquillamente 15 anni più giovane della sua età reale. Incredibilmente, la donna la cui immagine ha affascinato il mondo quando ha ricevuto il premio Nobel per la Pace nel 1991, ha 65 anni.
Una volta ripreso fiato, comincio chiedendo quanto è diversa la libertà dagli arresti domiciliari. «Mentalmente ed emotivamente, non c'è alcuna differenza. Talvolta penso che se sei solo, sei più libero perché puoi disporre del tuo tempo», dice, ridendo di questa vaga assurdità. «In un certo senso, non ne disponi perché sei agli arresti domiciliari e non puoi uscire. Però, dato che per natura non sono tanto una bighellona, per me non è stato un grosso peso».
Noto molti tratti della donna che il mondo ha imparato ad ammirare: il suo stile misurato e giusto un accenno di giocosità, un delicato contrappunto al brutale regime che sta combattendo. E poi c'è la voce: ogni parola è enunciata, con piglio da istitutrice, ogni consonante, soprattutto la "w" di "what" (cosa) e di "where" (dove), aspirata con vigore. E infine c'è l'uso che fa del termine "bighellona", una parola che risale ad altri tempi, quando era la moglie pressoché ideale di un accademico di Oxford, madre di due figli maschi e scrittrice.
«Probabilmente dipende dal carattere di ognuno», dice riferendosi al modo in cui ha gestito la solitudine. Ha vissuto seguendo una rigorosa routine, in modo che alla fine della settimana, potesse premiarsi con un po' di "tempo libero" per fare ciò che voleva. «Ah», dice trionfalmente, compiacendosi del trucco psicologico che ha usato su sé stessa e sui generali che cercavano di annientare il suo spirito. «Penso che se possiedi dentro di te risorse sufficienti, puoi vivere in isolamento per lunghi periodi di tempo senza per questo sentirti sminuito».
Oltre ad ascoltare incessantemente la Bbc, si esercitava al piano, studiava giapponese e meditava. Ha anche scoperto Tennyson. «Forse è un fatto legato all'età, ma ora apprezzo più la poesia della prosa. Ho scoperto alcune opere molto belle di Tennyson. Una volta lo ritenevo un vecchio superato, ma non è così. Alcuni poemi tratti da La principessa sono davvero belli».
Poco tempo dopo il suo rilascio, ha rincontrato il figlio minore Kim, che oggi ha 33 anni, dopo una separazione durata dieci anni. «È stato bellissimo, bellissimo», dice. «Perché ci siamo sentiti vicini come siamo sempre stati. Ed è stato bello. Credo che mi avrebbe rattristato molto se ci fossimo allontanati».È entusiasta del cucciolo che lui le ha portato, un bastardino: «Mi ha regalato un cane, un cagnolino molto carino, ma il veterinario mi ha detto che diventerà piuttosto grande. Finirà per occupare troppo spazio nel mio letto».
La liberazione di Suu Kyi ha fatto notizia sui giornali di tutto il mondo, anche se, per comodità dei generali, è avvenuta giusto una settimana dopo le finte elezioni alle quali il suo partito, la Lega nazionale per la democrazia, si è rifiutato di partecipare. Da allora, la situazione appare tristemente stagnante.
«In realtà, sono successe tante cose, che forse la gente dal di fuori non ha notato», dice lei. «Il giorno stesso in cui mi hanno rilasciata ho detto che avrei creato una rete, una rete di persone per la democratizzazione, e il progetto è realmente decollato. Ho scoperto che ci sono moltissimi gruppi ovunque, che agiscono ognuno per conto proprio, ma ora hanno cominciato a coordinarsi. Stiamo iniziando a trovare la forza nei numeri».
Il governo vorrebbe limitare l'attività politica alle assemblee nazionali elette di recente, dominate dai suoi seguaci. «Per questo dobbiamo lavorare fuori dalle assemblee ed è ciò che sta cercando di fare la nostra rete».
Fra i sostenitori di Suu Kyi, alcuni sono frustrati dal suo rifiuto di partecipare alle elezioni di novembre, per quanto fossero una messa in scena. Questa mossa non ha relegato la sua organizzazione fuori dal processo politico? Suu Kyi nega con veemenza. «La gente continua a parlare di queste elezioni», dice con tono esasperato, aggiungendo che il referendum del 2008 sulla costituzione, approvata da un immaginario 92 percento della popolazione, è stato l'evento più importante. «Dopo tutto, le elezioni ci sono ogni cinque anni. Una costituzione in teoria dovrebbe essere praticamente per sempre».
Non partecipare alla cosiddetta «democrazia dalla fiorente disciplina» dei militari non significa abbandonare l'opposizione politica. Quando l'Europa centrale e orientale era comunista, «era come uno stagno ghiacciato», dice lei citando lo storico Timothy Garton Ash. «Ma la vita andava avanti sotto la superficie».
Eppure, insisto, suo padre non avrebbe visto questa tattica come troppo pura e legata ai principi? Perseguendo l'indipendenza nazionale, lui non ha disdegnato il ricorso all'inganno, arrivando a collaborare con i giapponesi per poi allearsi di nuovo con gli inglesi alla fine della guerra. Ha "rinnegato" gli accordi con entrambi, dico, con una scelta di termini maldestra che mi viene fatta scontare immediatamente. Il volto di Suu Kyi si rabbuia. «Lui non ha rinnegato nessun patto, né con gli inglesi né con i giapponesi», mi rimprovera. «Penso che si possa dire il contrario. Sono stati i giapponesi a venire meno a un patto siglato con i birmani. Avevano promesso di dare l'indipendenza alla Birmania e non l'hanno fatto».
Riformulo la domanda, dicendo che suo padre era disposto ad agire in modo "strategico" e a sottoscrivere alleanze scomode. «Oh, anche noi siamo pronti a muoverci in modo molto strategico», risponde lei, e un sorriso malizioso, quasi da adolescente, le illumina di nuovo il viso. «Ma dovete capire che la situazione è completamente diversa. Dopo tutto, mio padre combatteva contro nemici stranieri. Noi stiamo tentando una battaglia contro gente della nostra stessa razza. Stiamo cercando di cambiare la cultura politica della Birmania, ed è un compito molto più difficile».
La Birmania è davvero un altro mondo. Luogo remoto in epoca coloniale e isolato dalle sanzioni in epoca moderna, la Birmania viene descritta come la Thailandia di 50 anni fa. Per me, ci sono molte analogie con l'India che ho visto la prima volta negli anni ‘80: uomini in strada che battono lettere ufficiali su vecchie macchine da scrivere; gente che parla ai telefoni installati ai lati della strada; rudimentali sale da tè improvvisate sui marciapiedi con sedie e tavoli di plastica. La maggior parte della popolazione indossa sarong colorati o longyi. Molte donne si imbrattano il viso con una sorta di pittura di guerra gialla, una pasta ricavata dalla corteccia dell'albero di thanaka, che le fa sembrare quasi dei fantasmi. Per le strade la presenza militare non è ovvia, in parte perché i generali, come tanti re birmani prima di loro, hanno creato una capitale nuova di zecca, Naypyidaw, a 320 chilometri a nord di Rangoon.
C'è anche qualcosa della Corea del Nord, nella Birmania dei generali. Quella mattina, la notizia principale sul New Light of Myanmar era: "Spalla in acciaio installata sul ponte Ayeyawady (Pakokku)", con un articolo ripreso a pagina otto. Poi ci sono gli slogan, diligentemente stampati dai quotidiani in grassetto. "L'anarchia genera anarchia, non democrazia", "VOA, BBC - seminano odio fra la gente", e "Ci opponiamo al disordine e alla violenza", cui segue immediatamente il mio preferito: "Annientate coloro che incitano al disordine e alla violenza". . . . Mi chiedo come Suu Kyi riesca a provare ancora affetto per un esercito così corrotto da essere irriconoscibile rispetto agli ideali di suo padre. «Mi hanno educata ad apprezzare l'esercito, a credere che tutti coloro che indossano un'uniforme dell'esercito erano, in un modo o nell'altro, figli di mio padre. Non è una cosa di cui ci si può semplicemente liberare. Ti resta dentro», dice.
Molti dei fondatori della Lega nazionale per la democrazia erano ex generali. «È qualcosa di un po' più sofisticato che rovesciare la dittatura militare», continua. Per lei è più facile, ammette, mantenere un sentimento di amicizia nei confronti dell'esercito dal momento che, contrariamente a molti suoi compatrioti politici, non ha mai subito torture né è mai stata lasciata a marcire in una prigione birmana (anche se ha fatto uno sciopero della fame la prima volta che venne arrestata nel 1989, per chiedere di essere messa anche lei in prigione). Dal suo ultimo rilascio, ha ribadito l'appello al dialogo. A oggi, non è arrivata alcuna risposta dai generali. «Non ho sondato il terreno perché non so bene chi sia a tenere davvero le redini».
Se ne deduce che il sistema politico birmano è in una fase piuttosto fluida. L'assemblea appena costituita dovrebbe riunirsi questo lunedì per eleggere un nuovo capo del governo. Than Shwe, oggi 77enne, comandante in capo dell'esercito birmano dal 1992, dovrebbe uscire gradualmente di scena, anche se alcuni sospettano che continuerà a tramare dietro le quinte color kaki. In questo contesto in evoluzione, qualche membro dell'opposizione birmana ha intravisto un'opportunità. Se l'esercito, attualmente guidato da un drappello di generali più giovani, dopo vari pensionamenti forzati, inizia a contendersi il potere con le nuove assemblee, potrebbe crearsi un varco politico.
Suu Kyi è scettica. «Talvolta penso che una parodia di democrazia potrebbe essere più pericolosa di una dittatura palese, perché darebbe alla gente l'opportunità di evitare di fare qualcosa al riguardo». L'occidente tende a vedere la Birmania attraverso il prisma del movimento democratico di Suu Kyi. Ma una crisi altrettanto grave e, anzi, secondo alcuni anche più preoccupante, è la guerra civile infinita fra l'esercito birmano e i tanti gruppi etnici minori, che vivono soprattutto nelle zone di confine. Gli scontri con i Karen, Kachin, Wa, Shan e altre popolazioni si riaccendono continuamente da sessant'anni, durante i quali hanno provocato forse un milione di morti. Non è qualcosa che il ritorno alla democrazia potrebbe risolvere facilmente, anche se alcune minoranze potrebbero essere più disposte a far parte di una nazione democratica che non di un regime militare votato alla loro totale sottomissione.
Il padre di Suu Kyi tentò di affrontare il problema nella piccola città Shan di Panglong, che nel 1947 ospitò una conferenza durante la quale le popolazioni Shan, Chin e Kachin, ma non gli altri gruppi etnici, accettarono di far parte della repubblica in cambio di una notevole autonomia. Suu Kyi ha dichiarato l'intenzione di convocare una seconda Panglong lanciando un nuovo tentativo di accordo con le minoranze etniche, i cui leader in alcuni casi la vedono non tanto come una paladina della democrazia, quanto come la rappresentante del nazionalismo birmano.
«Non c'è ancora uno spirito unitario», ammette lei. «Non esiste fra le nazionalità etniche, inclusi noi birmani, che siamo soltanto i più numerosi, la sensazione di un'appartenenza comune».
Molti sono scettici anche sulla sua possibilità di convocare una conferenza di questo tipo, date le limitazioni, esplicite o implicite, imposte alla sua attività dai militari. Lei nega che siano state poste condizioni per la sua liberazione. Ma perché, allora, non ha lasciato Rangoon? «Ho molto lavoro da fare qui. Come potrei stare qui a parlare con lei se dovessi andare in giro per tutta la Birmania?», risponde in modo non troppo convincente.
Panglong 2, dice, si può fare nel cyberspazio, anche se le autorità dovrebbero concederle una connessione internet solo il giorno in cui la intervisto. «Se non riusciremo a incontrarci tutti insieme di persona in un posto, possiamo comunicare usando tutte le tecnologie informatiche disponibili nel XXI secolo«, afferma.
Affrontando un altro argomento strategico, le chiedo delle sanzioni. Thant Myint-U, scrittore e nipote di U Thant, ex segretario generale dell'Onu, si è espresso contro queste misure in modo molto eloquente, scrivendo che è stato Ne Win ad appendere il cartello «non disturbare» sulla porta della Birmania. «L'esercito potrà sostenere altri quarant'anni di isolamento senza alcun problema, molto più di qualsiasi altra componente della società birmana».
Riguardo al turismo, Suu Kyi si è ammorbidita. Il suo partito diffonderà a breve un libro bianco che approva i singoli turisti attenti a non spendere denaro destinato a finire direttamente nelle tasche dei generali. «Vogliamo incoraggiare il turismo individuale, suggerendo ai turisti di soggiornare in determinati tipi di alberghi: un turismo etico, se vuole», dichiara.
Ma sulle sanzioni economiche in senso lato è molto più cauta: del resto, sono ancora le sue principali monete di scambio. «Alcuni stanno usando il problema delle sanzioni come arma politica per colpire il movimento democratico, e non perché sono misure che danneggiano gravemente la popolazione», aggiunge specificando che la povertà è colpa di anni di cattiva gestione da parte di una giunta economicamente analfabeta. In ogni modo, ha voluto un riesame del tema delle sanzioni, che potrebbe portare qualche "modifica" nella posizione del suo partito, ammette.
Nel 1946, in un discorso in cui sottolineava la responsabilità di tutti i birmani di premere per l'indipendenza, suo padre disse: «Sono una persona molto amata dalla gente. Ma non sono un dio, né un mago».Mi chiedo se anche Suu Kyi senta il peso di aspettative eccessive, e se non tema di sottrarre il pungolo della ribellione a un popolo che ripone una fiducia irrealistica nella sua capacità di provocare un cambiamento. Noto un cenno di ammissione.
«Devo confessare che non ho mai avuto tanto sostegno. Però, contemporaneamente, credo che ci sia più senso di responsabilità fra i miei sostenitori. Ho la sensazione che si rendano conto di dover fare di più, che io ho il mio ruolo, ma ne hanno uno anche loro». E continua: «Quando la gente mi chiede se voglio essere il prossimo presidente della Birmania, rispondo di no. Lo scopo di questo esercizio è avere un presidente dopo l'altro e un altro ancora».
La Birmania non sembra più vicina all'obiettivo rispetto a quasi 23 anni fa, quando lei parlò la prima volta alla pagoda di Shwedagon, dico io. In un certo senso i generali sono più forti che mai. Ricevono miliardi di dollari dalla vendita di gas naturale alla Thailandia e alla Cina e hanno appena portato a termine una subdola manovra costituzionale ed elettorale finalizzata a dare una facciata democratica al loro regime.
Considerando il sacrificio che ha fatto - la separazione dai due figli e dal marito, morto di cancro nel 1999 - trovo sconvolgente la sua prima risposta: «Penso che non ci siamo ancora mossi». Poi spiega. «Vorrei che il mondo capisse che le elezioni e il mio rilascio non indicano che abbiamo raggiunto un punto di svolta. Mi hanno liberato perché la mia pena era finita». La speranza non si è estinta. «Grazie a un cambio di atteggiamento della popolazione della Birmania, soprattutto dei giovani, credo che ci muoveremo più rapidamente verso il cambiamento. Non sto dicendo che il traguardo sia vicino, o qualcosa del genere, ma solo che il movimento sta prendendo vigore».
Chiedo: dopo il picco di rivolta del 1988, non c'è stata un'altra sommossa minore guidata dai monaci nel 2007? No, risponde lei. Ora la gente è ancora più attiva e coraggiosa. «Le persone sono più disposte a farsi coinvolgere. Questi collegamenti aiutano. Ti senti molto isolato se qualcuno ti picchia» - la frase suona strana sulle sue labbra - «e nessuno lo sa. Ma se la polizia ti malmena e tu puoi comunicarlo immediatamente tramite i media, e la gente comincia a gridare il tuo nome per sostenerti, questo di dà potere».
Quando ormai l'orologio segna mezzogiorno, riporto la conversazione sul tema iniziale. Sente rimpianto per gli anni che ha perduto, per il mondo esterno alla sua prigione casalinga e oltre i confini della sua prigione Birmania? «No. Ovviamente mi mancano gli amici», dice con decisione. «Ma anche rispetto agli amici, ho ricordi molto felici. Se hai ricordi felici, puoi vivere in isolamento senza pensare di aver perso troppo».
Mi alzo per andarmene. «Grazie infinite di essere venuto», dice, come se fossi semplicemente andato a trovarla per un tè. Parliamo del mio piano elaborato e totalmente ridicolo per evitare la polizia segreta, che prevede un cambio di berretto e uno scambio di taxi. «Forse il suo abito gessato è un po' vistoso», scherza lei. <Non so perché lo facciano. Deve essere terribilmente faticoso e anche noioso».
Si congeda raccontandomi la storia di un inglese che stava progettando un viaggio in Birmania qualche anno fa. «È andato al pub che frequentava come al solito e ha detto che sarebbe andato in vacanza in Birmania. E uno dei suoi amici ha detto: "Sicuro che dovresti andarci? Quella donna con il nome impronunciabile ha detto che non devi farlo". Mi ha molto commossa. Non sapeva pronunciare il mio nome, ma ovviamente aveva preso a cuore il mio messaggio». E poi aggiunge, quasi con indifferenza, come se gli ultimi 23 anni fossero stati un piccolo inconveniente: «Ho pensato che la prossima volta che riesco ad andare in Inghilterra, devo andare in quel pub».
*David Pilling è il direttore responsabile del Financial Times in Asia Copyright The Financial Times Limited 2011 Traduzione di Francesca Marchei