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Un fiume di dollari all'alleato di ferro

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Questo articolo è stato pubblicato il 30 gennaio 2011 alle ore 08:12.

Sessanta miliardi di dollari, o poco meno, dal 1982. Dall'anno in cui Hosni Mubarak, l'inossidabile rais dell'Egitto, è al potere. In media, due miliardi l'anno, che si traducono in 156 milioni al mese. In altri termini, cinque milioni di dollari che ogni giorno scivolano dalle tasche dei contribuenti americani e finiscono nelle casse del governo del Cairo (oltre l'80%) o di altri enti.

La solida alleanza tra Egitto e Stati Uniti la si vede anche dagli aiuti diretti di Washington al suo alleato di ferro nel mondo arabo. Quando, il primo giorno di rivolta, il segretario di stato americano Hillary Clinton ha colto di sorpresa il mondo con il suo cauto commento - «Il governo egiziano è stabile» - probabilmente pensava anche a quel fiume di dollari. E probabilmente rifletteva sui normali rapporti tra l'alleato numero uno, Israele, e il suo ex nemico l'Egitto. Probabile che abbia pensato ai 117 milioni di dollari in sofisticate tecnologie versati da Washington dal 2007 affinché il governo del Cairo distrugga i tunnel sotterranei tra Gaza e il Sinai egiziano, il canale privilegiato di Hamas per rifornirsi di armi. E non è escluso che, preoccupata, si sia lasciata andare a una ricorrente, anche se non automatica, equazione: Egitto senza Mubarak uguale Egitto governato dai Fratelli musulmani. Vale a dire il movimento islamico che ha ispirato la nascita di Hamas (regime sponsorizzato dall'Iran) e con cui tuttora intrattiene relazioni più che amichevoli.

Forse quel «governo stabile» pronunciato a denti stretti dal segretario di stato Usa, che ha mandato su tutte le furie il leader dell'opposizione (e Nobel per la pace) Mohammed ElBaradei, rifletteva solo un desiderio. Per quanto Mubarak non sia un riformatore illuminato, e benché dai documenti di Wikileaks emerga che ci sarebbe stato un piano americano per favorire un «cambio di regime» in senso democratico (anche con una rivolta pilotata), alla Casa Bianca fa paura pensare all'Egitto improvvisamente orfano del suo rais. Ecco perché ne ha fatto, dopo Israele, il paese a cui sono andati più aiuti sin dal 1979, anno in cui a Camp David l'allora presidente Anwar Sadat firmò un trattato di pace con il premier israeliano Menachem Begin (tra paesi arabi solo Egitto e Giordania riconoscono Israele).

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Tags Correlati: Anwar Sadat | Congressional Reasearch Service | Egitto | George W. Bush | Hamas | Hillary Clinton | Hosni Mubarak | Iran | Israele | Jeremy M. Sharp | Menachem Begin | Politica | Robert Gibbs | Stati Uniti d'America | Usaid

 

L'Egitto è strategico per la Casa Bianca. Che finora non sia stata un'alleanza ispirata al miglioramento dei diritti umani e al sostegno civile lo si vede entrando nel dettaglio in un rapporto (datato 28 gennaio) del Congressional Reasearch Service, il think tank del Congresso americano: da oltre 20 anni gli aiuti militari fanno la parte del leone: almeno 1,3 miliardi di dollari l'anno. Un fiume di armi e materiale bellico per aumentare le capacità negoziali e di pressione dell'Egitto. Gli aiuti economici rappresentano un'altra cospicua fetta. Fino al 2008 erano 411 milioni (800 nel '98), il presidente George W. Bush alla scadenza del mandato decise di tagliarli drasticamente (nel 2010 sono stati 250). I fondi destinati a promuovere riforme democratiche sono solo un piccolo residuo: 25 milioni, (il 10% degli aiuti economici, che a loro volta sono meno del 20% del totale). Nel 2010 sono stati stanziati 1,3 miliardi in aiuti militari e 250 milioni in aiuti all'economia. «L'amministrazione di Obama ha chiesto al Congresso di approvare somme simili anche per l'anno fiscale 2011 - ci spiega Jeremy M. Sharp, l'autore del rapporto. Gli aiuti militari sono forniture e servizi. Gli aiuti economici sono erogati da Usaid, tuttavia una parte è andata al Governo di Mubarak, a condizione che portasse avanti certe riforme». Da anni diverse associazioni americane ed egiziane per i diritti umani rivolgono un pressante monito alla Casa Bianca: fate dipendere in modo più stretto gli aiuti economici dall'assistenza alle minoranze religiose e alle opposizioni politiche. I risultati sperati non sono arrivati.

Davanti alle vittime, in costante aumento, ai soprusi delle polizia, Obama, si è schierato venerdì a fianco del popolo egiziano chiedendo «immediate riforme». E per bocca del portavoce della Casa Bianca, Robert Gibbs, ha adoperato un convincente argomento. «Rivedremo la nostra politica di assistenza sugli eventi che stanno succedendo ora e nei prossimi giorni». Ma sembra più un monito che una minaccia reale. Per quanto sia un regime, l'Egitto è un alleato difficile da sostituire. Anche oggi, con la Turchia che ha rafforzato i suoi rapporti con Iran e Siria. Al Pentagono nessun generale dimentica che ogni mese 12 navi militari americane, attraversano lo strategico canale di Suez, godendo di privilegi e facilitazioni non concessi a nessun altro esercito. Washington sa che ora un cambiamento di regime non è più rinviabile. Ma sa anche che il dopo Mubarak è un futuro pieno di incognite.

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