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Questo articolo è stato pubblicato il 30 gennaio 2011 alle ore 08:12.
Per essere il paese giusto alle sue porte, Israele non sembra preoccuparsi troppo di quello che sta accadendo in Egitto. Sono passati giorni prima che i grandi quotidiani se ne occupassero. E quando hanno incominciato a farlo, è stato con un certo distacco. Come se a rischiare di saltare in aria fosse un'Algeria, lontana in fondo al deserto.
Ma non è così, la preoccupazione c'è per quanto inespressa. Nessun paese arabo ha mai aiutato il "nemico sionista" tanto quanto l'Egitto. Nel 1967 le parole e le azioni di Nasser offrirono a Israele la possibilità di un attacco preventivo e della sua più grande vittoria militare. Nel 1979 il suo successore Anwar Sadat offrì e diede la pace. Riguadagnò la penisola del Sinai ma Israele ebbe molto di più. Uno degli assunti più consumati del Medio Oriente è che senza la Siria Israele non può fare la pace con gli arabi e senza l'Egitto gli arabi non possono fare la guerra a Israele. La prima parte è opinabile: la Giordania ha fatto la pace. La seconda è una certezza provata: senza la massa critica egiziana il mondo arabo non è più stato capace di fare una guerra convenzionale a Israele. Da allora contro lo stato ebraico ci sono stati solo conflitti non convenzionali: l'Intifada palestinese, Hezbollah e Gaza.
Anche in questa seconda categoria di guerra l'Egitto di Hosni Mubarak è stato collaborativo. Due anni fa in questi giorni gli israeliani poterono bombardare Gaza per quasi un mese senza che gli egiziani facessero qualcosa. Per molti giorni chiusero anche la frontiera di Rafah per impedire il passaggio di aiuti e di giornalisti, scomodi testimoni.
Ma quella fra Israele e Egitto rientra nella categoria di pace fredda: rapporti diplomatici essenziali, scambi economici al minimo per assecondare la perdurante ostilità dell'opinione pubblica egiziana alla pace di Camp David. Le relazioni politiche fra i due governi, tuttavia, non hanno mai smesso di essere calorose: Mubarak non ha mai fatto distinzione fra esecutivi laburisti più portati a un accordo con i palestinesi, e del Likud molto più rigidi.
I manifestanti nelle strade delle città egiziane stanno protestando per la libertà di opinione e le condizioni economiche. Ma se i moti continueranno, presto o tardi si ricorderanno anche di Israele e dei palestinesi. E questo diventerebbe un pericolo. La scelta del nuovo vicepresidente non è del tutto separata da questo rischio. Omar Suleiman, un militare, è il capo di tutti i servizi di sicurezza egiziani, il garante per le preoccupazioni israeliane, l'uomo che tiene i fili con Hamas per impedire che da Gaza partano altre provocazioni. Se Israele avesse potuto scegliere il successore formale di Mubarak, avrebbe scelto Suleiman. È per questo che nonostante le fiamme del Cairo, Bibi Netanyahu continua a pensare che la vera minaccia a Israele sia solo l'Iran.