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Il martire che ha acceso la piazza

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Questo articolo è stato pubblicato il 01 febbraio 2011 alle ore 06:36.

IL CAIRO. Dal nostro inviato
Se questa rivolta ha un eroe si chiama Khaled Said, 28 anni, torturato e ucciso da due poliziotti che volevano perquisirlo in un internet café sulla corniche di Alessandria. È la foto di Khaled l'unica che ho visto alle manifestazioni, non c'erano immagini di altri leader egiziani. Il sito su Facebook a lui dedicato, "Siamo tutti Khaled Said", è stata in questi mesi la piazza elettronica che ha mobilitato quella reale per una battaglia civile e politica che ha coinvolto tutti senza distinzioni ideologiche.
La storia di Said è fondamentale per capire la ragioni profonde di questa sollevazione popolare che non sono solo economiche e sociali ma legate a un sistema repressivo inaccettabile per un paese che aveva leggi avanzate e garanzie giuridiche di stampo occidentale già agli inizi del secolo scorso. «Non sono stati i due poliziotti a uccidere Khaled Said, è stato ammazzato dalla nostra costituzione, dalle nostre leggi di emergenza manipolate e abusate. In questo paese si varano le leggi escludendo sistematicamente i giuristi dalla loro formulazione», dice Zacharia Abdelaziz, presidente d'Associazione dei magistrati, ex giudice di Corte d'appello, una delle voci più autorevoli della società civile. È un signore cordiale, di piccola statura che espone i fatti e i concetti con molta chiarezza.
La vicenda è iniziata il 7 giugno quando due poliziotti - Mahmoud Alfallah e Awad ElMokhber - hanno bloccato Khaled e gli hanno chiesto i documenti. Lui si è rifiutato e i due, che non avevano nessuna autorizzazione, lo hanno riempito di calci al petto e al ventre per poi fracassargli il cranio sbattendolo contro un piano di marmo, davanti a tutti. Inferociti lo hanno trascinato su un'auto e poi in una stazione di polizia dove è stato torturato fino alla morte. Per simulare un'aggressione di sconosciuti il corpo è stato gettato tra la spazzatura in una strada secondaria.
«L'unica colpa di Khaled è stata chiedere al poliziotto: perché vuoi perquisirmi? Questo non è un reato per cui essere torturati e uccisi. Ma c'è ben altro», aggiunge il giudice. «Supponiamo che Khaled avesse commesso qualche azione illegale: dà diritto ai poliziotti di trattarlo in maniera disumana?». Zacharia Abdelaziz conferma che alcuni poliziotti si vantano di picchiare i detenuti senza lasciare tracce visibili ma sul corpo di Khaled hanno "lavorato" dei sadici. Guardo le fotografie viste anche da milioni di egiziani su internet: il volto è irriconoscibile, le ferite profonde, i denti spezzati, la mascelle frantumate, il mento completamente lacerato, le orecchie strappate. Penso al blogger Wael Abbas che in pochi anni ha documentato 200 casi di tortura.

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Tags Correlati: Abbas Wael | Abdel Fattah | Alessandria | Corte d'Appello | Khaled Said | Mahmoud Alfallah | Reati | STORIAKhaled Said | Zacharia Abdelaziz

 

Alla prima autopsia ufficiale la fine di Khaled fu liquidata come una morte per asfissia. «Il soggetto - recitava il referto - si è ucciso inghiottendo una busta di narcotici quando si è visto scoperto dalla polizia». Soltanto dopo qualche tempo il procuratore generale si è deciso a interrogare i testimoni che hanno raccontato una verità ben diversa. La famiglia, imprenditori della media borghesia di Alessandria, ha assunto avvocati e insistito perché venissero approfondite le indagini, altrimenti tutto sarebbe stato sepolto sotto le scartoffie come molti altri casi. Khaled Said era un giovane colto, con una coscienza civile che poteva dare fastidio. «Uno dei motivi per cui è stato picchiato a morte è che voleva rendere pubblico un video dove dei poliziotti stavano spartendosi una partita di droga», mi dice il blogger Wael Abbas che nel 2006 mise sul suo sito un filmato che mostrava l'autista di un minibus, Kabir, sodomizzato in un commissariato di polizia. Kabir allora venne incarcerato per tre mesi per resistenza a un pubblico ufficiale.
«Mai come in questi due o tre anni la tortura è salita in primo piano: le vittime hanno iniziato a parlare, forse anche grazie a internet e Facebook. È cambiata anche nell'opinione pubblica la percezione di quello che può permettersi la polizia» dice il giudice Abdelaziz.
Quello che non è cambiato è la cultura dell'impunità, la stessa che ha spinto la polizia in questi giorni di rivolta a partecipare ai saccheggi. Davanti al Museo egizio incontro Abdel Fattah al Banna, vice direttore del Centro per la conservazione di monumenti e manoscritti. Mi allunga il biglietto da visita - dove leggo che ha un dottorato in geologia storica - mentre ci spingono via a forza in piazza Tahrir. «La verità - dice Fattah - è che i saccheggi sono stati fatti stamattina all'alba (domenica, ndr) dalla polizia in borghese, sotto gli occhi dei soldati che non sono intervenuti». Una testimonianza grave e autorevole che concorda con molte altre raccolte in questi giorni: chi doveva proteggere l'ordine pubblico lo ha sabotato per punire la popolazione seminando paura e incertezza.
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