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Gli Usa: basta attacchi ai giornalisti

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Questo articolo è stato pubblicato il 04 febbraio 2011 alle ore 07:40.

La notizia degli arresti di giornalisti americani al Cairo è giunta inaspettata. Due donne, una fotografa del Washington Post e Leila Fadel, la corrispondente dal Cairo dell'autorevole quotidiano sono ancora in prigione, ma stanno bene. Due giornalisti del New York Times sono stati invece arrestati e poi liberati. Queste notizie hanno fatto scattare l'allarme alla Casa Bianca. «Gli Usa - ha detto il portavoce Robert Gibbs - deplorano e condannano la violenza in Egitto. Gli attacchi ai media e ai dimostranti pacifici sono inaccettabili».

L'allarme non è solo per le ovvie preoccupazioni per la sorte di cittadini americani, ma perché nell'arresto dei giornalisti c'era implicito un messaggio duro del presidente Hosni Mubarak a Washington, l'ultimo rilancio in un lungo negoziato diplomatico che finora si è svolto dietro le quinte: attenzione, dice Mubarak, potrò cedere fino a un certo punto. Oltre quel punto ci sarà un prezzo.

Il messaggio era già chiaro il giorno prima, quando i sostenitori di Mubarak si erano gettati nella mischia per combattere i dimostranti anti regime in piazza. Mubarak in sostanza credeva di aver raggiunto un accordo nel fine settimana per una transizione pacifica che avrebbe salvato il suo ruolo fino alle elezioni di settembre. Quando ha capito che l'America non solo l'aveva abbandonato ma chiedeva tempi più rapidi per un cambiamento, ha reagito. Del resto, come ha rivelato lui stesso ieri, in un'intervista con la rete televisiva Abc, nei giorni scorsi, parlando con Obama, gli aveva detto: «Non capisci la cultura egiziana, né che cosa succederà se dovessi lasciare il potere». Poi l'escalation violenta fino a colpire gli stessi americani.

La risposta americana a questa evoluzione della crisi sul terreno è stata molto ferma. Il segretario di Stato Hillary Clinton ha letto nel tardo pomeriggio di ieri una dichiarazione in cui si riafferma la posizione di Washington: auspicio per un cambiamento rapido, un passaggio pacifico alla democrazia e il richiamo per un ruolo responsabile del vicepresidente Omar Suleiman. Poco prima c'era stata una dichiarazione di P.J. Crowley, il portavoce del dipartimento di Stato, un ex militare che lavorò nella Casa Bianca di Clinton: «Abbiamo espresso la nostra grave preoccupazione ai funzionari del ministero degli Esteri e dell'Ambasciata qui a Washington», ha detto Crowley, che ha poi aggiunto: «Siamo inoltre in contatto con le forze armate egiziane». Un riferimento chiaro al rapporto privilegiato dei funzionari americani con i militari egiziani.

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Tags Correlati: ABC | Egitto | Elezioni | Forze Armate | Frank Wisner | Hillary Clinton | Hosni Mubarak | Jimmy Carter | Leila Fadel | Medio Oriente | Ministero degli affari Esteri | Omar Suleiman | Robert Gibbs | Stati Uniti d'America

 

Battute e controbattute dunque, in un braccio di ferro che è ormai passato dalla discrezione dei colloqui diplomatici dietro le quinte alla fin troppo pubblica piazza. Solo Obama ieri era stato più generico: riflettendo sulla rivoluzione araba ha detto: «Preghiamo per il Medio Oriente, perché cessi la violenza, i diritti e le aspirazioni del popolo egiziano siano realizzati e possa sorgere l'alba di un giorno migliore».

La parte più delicata della battaglia diplomatica era cominciata domenica pomeriggio, quando Obama ha deciso di inviare un suo rappresentante speciale a discutere direttamente con il presidente egiziano una ipotesi di passaggio delle consegne. Il diplomatico si chiama Frank Wisner. È in pensione, ma è uno dei più grandi esperti della regione e conosce personalmente Mubarak. Obama lo ha mandato al Cairo con una missione: convincere il presidente egiziano a rinunciare al potere. L'accordo è stato raggiunto. Mubarak ha accettato ma ha chiesto di restare fino alla fine del suo mandato, per gestire la transizione, per non andarsene con vergogna e difendere il suo onore. Obama però ha fatto capire che questo non sarebbe stato possibile. Che i tempi dovevano essere più stretti. Una partita molto complessa quella che sta giocando la Casa Bianca, in bilico fra il rispetto delle promesse della democrazia e il pericolo che queste promesse possano portare a regimi ostili. Finora la partita è stata giocata con le mosse giuste: la piazza è legittimata, il vecchio leader è delegittimato, il rapporto con i militari, garanti della stabilità, è forte.

Tutto questo per dire che Obama non è Jimmy Carter, almeno non per ora. È vero che questa crisi è ormai diventata la sfida più difficile per la sua amministrazione. Ma a differenza di Carter, che nel 1978 fece una valutazione errata degli sviluppi in Iran, Obama è ben cosciente del rischio di perdere l'Egitto. Lo era già quando promise la democrazia e incoraggio la libertà di espressione nel suo discorso al Cairo nel 2009.

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