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Quando Cavour comprava pecore merinos per il Cairo

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Questo articolo è stato pubblicato il 04 febbraio 2011 alle ore 07:40.


Non tutti sanno che Cavour, prima di buttarsi in politica, era un grosso imprenditore e uomo d'affari, così abile che da cadetto squattrinato divenne l'uomo più ricco del Piemonte. Ma quello che non ricorda proprio nessuno è che il primo grosso affare di Cavour fu un contratto con l'Egitto. Il pascià Mehemet Alì, che governava al Cairo in nome della Porta ottomana, voleva introdurre nel paese l'allevamento delle pecore merinos e chiese al padre di Cavour di comprargliele nell'impero austriaco; Camillo, ventiseienne, fu spedito nel Lombardo Veneto e poi in Austria per seguire l'affare.
Oggi l'Italia è il primo partner commerciale dell'Egitto fra i paesi europei, ma dubito che lo fosse nel 1836. Se Mehmet Alì si rivolse a Torino per comprare le merinos, è perché era consigliato da un uomo straordinario, che conosceva l'Egitto come pochi altri occidentali. Nel 1803, quando il Piemonte faceva parte della Francia napoleonica, il canavesano Bernardino Drovetti era stato nominato da Bonaparte console di Francia ad Alessandria d'Egitto. Destituito dai Borboni alla Restaurazione e poi reintegrato, Drovetti tenne il consolato francese in Egitto per quasi trent'anni.
All'epoca, l'idea che non sia bello depredare le ricchezze archeologiche di un paese per farne commercio privato e deportarle in lontani musei non sfiorava neanche le coscienze più scrupolose. Durante i suoi lunghi anni in Egitto Drovetti esplorò la Valle del Nilo, lasciò il suo nome graffito sui templi di Abu Simbel, e accumulò una fantastica collezione di reperti. Per battere la concorrenza non esitava a impiegare mezzi poco ortodossi, come quando, per sottrarre a un archeologo inglese l'obelisco di Philae, convinse la gente del posto che lui sapeva leggere l'iscrizione, e che secondo i geroglifici l'obelisco era appartenuto ai suoi antenati.
Drovetti era un appassionato, ma anche un imprenditore e a un certo punto decise di far fruttare i suoi tesori. Era cittadino di due paesi e trattò con entrambi; alla fine fu Carlo Felice, re di Sardegna, a fare l'offerta migliore e la collezione di Drovetti anziché al Louvre finì a Torino. Fino a quel momento non c'era proprio nessun motivo perché la città piemontese dovesse allacciare un rapporto speciale con l'Egitto, ma dal tempo della spedizione napoleonica e delle scoperte di Champollion le antichità egiziane erano di gran moda e il re decise che la nuova acquisizione avrebbe dato lustro alla sua capitale: nacque così il grande museo egizio di Torino, tuttora il secondo al mondo dopo quello del Cairo.

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Tags Correlati: Alessandria d'Egitto | Beni culturali | Bernardino Drovetti | Carlo Felice | Cavour | Cleopatra | Filippo Tommaso Marinetti | Giuseppe Ungaretti | Mehmet Alì | Nilo | Partito dei verdi | Ramsete | Roma (squadra) | Torino | Vittorio Emanuele III

 

Il culmine della mania egiziana in Italia fu toccato qualche anno dopo, nel 1871. L'Egitto era sulle prime pagine dei giornali per l'apertura del canale di Suez e il khedive, per accelerare l'integrazione del paese nell'Europa del progresso civile, aveva voluto un teatro dell'opera al Cairo. Per l'inaugurazione era andato in scena il Rigoletto, ma Ismail pascià voleva un'opera nazionale e Verdi fu affascinato dal soggetto che gli egiziani gli proposero. Gli italiani si lasciarono egualmente conquistare, e da allora Aida e Radames fanno parte della nostra immagine dell'Egitto, non meno di Ramsete e Cleopatra.
Nel frattempo i lavori per il canale di Suez avevano forgiato un altro legame fra Italia e Egitto, oggi dimenticato ma rimasto solidissimo per quasi un secolo. Esuli italiani erano affluiti nel paese del Nilo già all'epoca dei moti carbonari; erano abbastanza numerosi perché ad Alessandria fosse fondato un nucleo della Giovane Italia, e perché uomini e armi salpassero dall'Egitto per unirsi ai Mille in Sicilia. Con l'apertura del cantiere di Suez altre migliaia di operai e tecnici italiani affluirono nel paese. In breve tempo gli italiani divennero il terzo gruppo etnico dell'Egitto, dopo i greci, con un totale che raggiunse le 60mila persone; la comunità più numerosa, quella di Alessandria, ne contava 25mila.
In un paese multietnico e multireligioso, dove convivevano europei, levantini e indigeni, musulmani e cristiani di tutte le confessioni, quel pezzetto d'Italia prosperò pacificamente per molti anni. Fra gli italiani nati ad Alessandria d'Egitto ricordiamo almeno Filippo Tommaso Marinetti e Giuseppe Ungaretti; ma potremmo aggiungere registi come il Goffredo Alessandrini dei telefoni bianchi e Riccardo Freda, maestro dello spaghetti-horror. Il loro successo è la prova dei vivaci contatti che la comunità italiana in Egitto manteneva con la madrepatria, anche se questo non significava certo rifiutare l'incontro con la nuova patria africana: ad Alessandria uscivano riviste letterarie bilingui, in italiano e in arabo, e poteva capitare che il gruppo anarchico italiano della Baracca Rossa si avvicinasse con interesse alle esperienze dei mistici sufi.
Era un mondo affascinante, se lo confrontiamo con le separazioni etniche di oggi; ma non era destinato a durare. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, le autorità inglesi internarono gli italiani maschi in campo di concentramento e confiscarono i loro beni. Alessandria, prima così vicina e familiare, divenne l'obiettivo irraggiungibile delle truppe dell'Asse che combattevano in Nordafrica. Se Rommel fosse arrivato al Canale, le sorti della guerra avrebbero potuto cambiare; ma l'invasione dell'Egitto si fermò ad El Alamein.
Dopo la catastrofe bellica, la rivoluzione del 1952 e le guerre arabo-israeliane accelerarono la fine della comunità: oggi in tutto l'Egitto vivono appena tremila italiani. L'ultimo legame fra i due paesi che sia salito agli onori della cronaca è stato uno scambio malinconico di re in esilio. Vittorio Emanuele III è seppellito nella cattedrale cattolica di Alessandria, dove morì nel 1947. Cinque anni dopo toccò a re Faruq abdicare e partire per la Roma della dolce vita, dove morì, a tavola, nel 1965. La stragrande maggioranza degli egiziani di oggi non erano ancora nati a quell'epoca, ed è improbabile che ricordino qualcosa degli italiani di Alessandria, di cui nemmeno l'Italia si ricorda.
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