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Frenata Usa sull'addio di Mubarak

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Questo articolo è stato pubblicato il 06 febbraio 2011 alle ore 14:49.

IL CAIRO - Nell'infuocata piazza Tahrir non sono in molti a conoscere Frank Wisner, 72 anni, ex ambasciatore in Egitto fino al 1991. Eppure, prima che Washington lo sconfessasse, la sorte dei rivoluzionari sembrava dipendere anche da questo signore: i piani per salvare Mubarak si moltiplicano. Inviato della Casa Bianca, Wisner è arrivato al Cairo il 29 gennaio, secondo il New York Times per recapitare a Mubarak il messaggio di Obama: il cambiamento deve iniziare "ora", cioè devi passare le consegne.

Ma Wisner, 72 anni, grande amico del presidente egiziano, di cui a quanto pare è anche socio in affari, ha cambiato idea. «Mubarak deve rimanere al suo posto per pilotare una transizione pacifica verso la democrazia», ha dichiarato ieri, aggiungendo che «è necessario un consenso nazionale su quali siano le precondizioni per il prossimo passo, e il presidente deve rimanere in carica per guidare il cambiamento». Wisner, ex manager della famigerata Enron e ora della Eog (petrolio), ha spiegato (mentre Obama ribadiva a Cameron e Merkel l'importanza di una «transizione ordinata, pacifica e immediata») che se la presidenza è vacante la costituzione egiziana prevede che sia il capo del Parlamento a prenderne il posto per convocare elezioni. Insomma non si può fare il passaggio dei poteri al vice, Omar Suleiman.

L'inviato di Obama ha rilasciato queste dichiarazioni lontano dal Cairo, in teleconferenza a Monaco, forse per farne decantare l'effetto esplosivo. E siccome viene da una famiglia di esperti diplomatici è probabile che abbia avuto l'imput dall'alto. Se il "piano Wisner" andasse in porto, sarebbe Mubarak a negoziare le "precondizioni," ovvero a trattare come uscire dal Palazzo di Heliopolis, se andarsene a settembre, a fine mandato, o in anticipo. Una via di uscita onorevole, che lascerebbe Mubarak davanti a un'opposizione inferocita che non vuole patteggiare con il raìs un Egitto più democratico.

Sarebbe questa la road map, voluta dai generali, condivisa da americani ed europei, per tenere il paese ancorato all'Occidente? In questa road map ci sono diverse variabili. Come reagiranno gli egiziani è un altro dettaglio non trascurabile: svuotare dai ribelli Piazza Tahrir, una delle condizioni poste dalle Forze armate, è il pilastro sui si basa ogni decisione politica. Ma questo è il lavoro sporco, da lasciare alle truppe scelte dei berretti verdi, ai baschi rossi della guardia nazionale.

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Tags Correlati: Azhar Al | Enron | Forze Armate | Frank Wisner | Mubarak | Obama | Omar Suleiman | Stati Uniti d'America

 

Mentre Wisner annunciava il suo piano, venivano annunciate e poi smentite le dimissioni di Mubarak dalla presidenza del partito (da dove è stato sostituito il figlio Gamal) in Sinai esplodeva - non è chiaro se per un attentato o un incidente - il gasdotto con Israele, sorta di cordone ombelicale che dopo la pace tiene legati i due paesi.

È in questo scenario instabile, lontano e sconosciuto ai rivoluzionari che comincia il lavoro sporco: il primo attacco dell'esercito, che arriva inaspettato, oltre i cavalli di frisia del check point, sul fianco del Museo egizio.

La piazza è avvolta da una nebbia inconsueta, cade una pioggia sottile riflessa nella luce soffusa dei lampioni, nella foschia intensa la sagoma aragosta del museo appare scolorita e i carri armati sono quasi mimetizzati.

In questa atmosfera quasi crepuscolare, alle quattro del pomeriggio un generale a quattro stelle, Hassan al Rowheni, fa muovere improvvisamente i tank e i difensori della piazza si mobilitano circondandoli con una muraglia di corpi: sono pronti a farsi travolgere. «Cospirazione, cospirazione», gridano mentre la piazza si agita lasciando isolata verso sud la legione dei predicatori di Al Azhar che salmodia un «Allah u Akbar» sempre più teso e profondo.

Il generale Rowheni non si dà per vinto. In questo campo di battaglia vede materializzarsi la gloria e muove un altro carro armato per distrarre i difensori, con una mossa che approfitta di una giornata sonnolenta, come se il cuore della rivolta battesse più lento e meno combattivo del solito. Ma non c'è niente da fare, la muraglia diventa ancora più fitta.

Con un megafono arringa la folla: «Salvate quel che resta dell'Egitto» ma è sommerso dalle urla. Il generale scende dal podio. Sembra arrendersi sconsolato: «Non intendo continuare a parlare in mezzo a canti e slogan», grida. Alle sei, quando è già buio, il generale ci prova ancora. Tutti i ribelli sono dietro ai carri armati per impedire ai tank di entrare nella piazza a retromarcia.

È stato questo il primo vero faccia a faccia tra le forze armate e Piazza Tahrir, un fronte di anime e cuori che il piano Wisner non sembra prendere neppure in considerazione.

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