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Commenti e Inchieste

Politici distratti, il paese ha perso la virtù del fare

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Questo articolo è stato pubblicato il 07 febbraio 2011 alle ore 08:33.
L'ultima modifica è del 07 febbraio 2011 alle ore 06:43.

Non c'è soltanto il quarto anno consecutivo di caduta del mercato a rendere molto difficile la situazione delle opere pubbliche e delle imprese appaltatrici in Italia.
La pubblica amministrazione paga ormai con ritardi patologici di sei mesi o un anno, esponendo al rischio del fallimento migliaia di imprese che hanno regolarmente onorato i contratti. Il piano delle piccole opere parzialmente varato nel 2010 dal Cipe è sempre al palo e conferma tempi di attuazione lunghissimi. Le nostre inchieste evidenziano ora altre due patologie che si aggravano.

I dati dell'Autorità di vigilanza confermano la persistenza di un forte contenzioso fra imprese e stazioni appaltanti, in particolare per le grandi opere, con conseguente allungamento dei tempi dei lavori e crescita dei costi. Dati preoccupanti anche sulle gare ferme: l'Anas che nel 2010 ha tenuto una buona performance in termini di pubblicazione dei bandi, ha però opere ferme prima dell'apertura del cantiere per 2,6 miliardi.
In assenza di un pacchetto di misure per la crescita dell'economia che rilanci anche questo settore, rendendo più snelle le procedure e integrando la dotazione finanziaria, il 2011 sarà l'anno in cui la crisi dei lavori pubblici si radicalizzerà e si abbatterà sul sistema delle imprese: per il Cresme il 20% delle aziende è a fortissimo rischio chiusura, mentre l'Ance, che lancia l'allarme ormai da mesi, denuncia il rischio di perdere oltre 200mila posti di lavoro tra 2010 e 2011.
Se il tessuto delle microinfrastrutture e delle microimprese rischia il tracollo, anche le grandi opere non stanno affatto bene.
Sono lontani i tempi in cui Silvio Berlusconi prometteva il nuovo sogno italiano di strade, ponti e ferrovie disegnando a «Porta a porta» la mappa italiana delle priorità infrastrutturali. Era il 2001 e per i successivi cinque anni il ministro Lunardi avrebbe lavorato duro su ogni singolo progetto per avviare il piano delle grandi opere. Non mancarono i ritardi, le delusioni, le critiche, ma la volontà di muovere e fare era evidente. La priorità politica era condivisa, mentre quel programma, realizzato solo in piccola parte, sembra aver perso ora ogni slancio.

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Tags Correlati: Amato | Ana | Ance | Cipe | Emma Marcegaglia | Italia | Italstat | Merloni | Pubblica Amministrazione | Silvio Berlusconi | Trasporti e viabilità

 

Qualche opera ha tagliato il traguardo – il passante di Mestre e l'alta velocità Torino-Napoli – ma infrastrutture come la Torino-Lione, il Brennero, l'asse est-ovest dell'alta velocità, il terzo valico, la Salerno-Reggio Calabria sono fortemente in ritardo rispetto alla tabella di marcia o addirittura impantanate ancora alla ricerca del piano finanziario e del progetto (come per il Frejus).
Anche prima, negli anni '90, altri tempi, altre maggioranze, con i governi Amato, Ciampi, Dini, Prodi e D'Alema, le opere pubbliche, grandi e piccole, erano state una priorità in Parlamento. Erano i tempi della legge Merloni, la stagione della trasparenza e del mercato. Si dirà che tangentopoli aveva fatto crollare il mercato ed è vero, ma dal 1996 la ripresa fu forte e continuò fino al 2005.

Non era facile far uscire il settore dal vicolo cieco in cui l'avevano portato le trattative private elevate a sistema e la spartizione tripartita del mercato in quote uguali fra Italstat, cooperative e grandi imprese. La legge Merloni ci riuscì perché tutti, anche allora, consideravano prioritario quel settore da rilanciare.
Oggi, in sintonia con un'epoca in cui prevalgono bassa crescita e grandi vincoli sul lato della finanza pubblica, sembra svanito ogni entusiasmo a fare. Di infrastrutture la politica nazionale non parla praticamente più. Qualcuno prova di tanto in tanto a rilanciare progetti strategici di un certo spessore, come il ministro Fitto con il piano Sud che dovrebbe ridurre la distribuzione a pioggia di miliardi di euro di fondi Fas delle regioni meridionali e concentrare le risorse sulle vere priorità infrastrutturali. L'esito, però, è tutt'altro che scontato, considerando che, dopo quasi un anno di discussioni, siamo ancora fermi a una delibera programmatica Cipe, approvata e poi corretta.
Le imprese, invece, continuano a credere e a dire esplicitamente che le infrastrutture sono necessarie per lo sviluppo del paese. Emma Marcegaglia qualche giorno fa ha rilanciato il tema delle infrastrutture parlando del pacchetto di misure per la crescita allo studio del governo. Per ora, nel pacchetto, non c'è nulla. Va bene dire, come fa il ministro Matteoli, che occorrono più investimenti privati e certamente, sia pure con qualche difficoltà, questo impegno sta crescendo anche numericamente. Quello che però è importante è che lo Stato non si disimpegni in un settore che resta strategico.

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