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Questo articolo è stato pubblicato il 09 febbraio 2011 alle ore 08:16.
L'ultima modifica è del 09 febbraio 2011 alle ore 06:39.
L'altro giorno il presidente del Consiglio commentava: «se vogliono la guerra civile, sono pronto». E ieri i suoi legali accusavano la procura milanese di violare la Costituzione, nel momento in cui l'ufficio di Bruti Liberati ha deciso di chiedere al Gip il rinvio a giudizio immediato del premier per gravissimi reati (prostituzione minorile e concussione). In questo scontro mortale l'impressione è che il peggio debba ancora venire, mentre le macerie istituzionali si accumulano.
In realtà la politica italiana corre su due rotaie in apparenza ancora parallele (ma fino a quando?). La prima rotaia riguarda appunto il conflitto finale con le procure. È chiaro da tempo che Berlusconi non intende piegarsi e tantomeno dimettersi. Se qualcuno pensava che l'offensiva giudiziaria lo avrebbe indotto a lasciare Palazzo Chigi, ora deve prendere atto che il premier combatterà, secondo il suo costume, fino alle estreme conseguenze. Userà tutte le armi politiche, giuridiche e mediatiche a sua disposizione. Quali che siano gli esiti..
L'altra rotaia dovrebbe riguardare l'attività del governo. La riforma del «processo breve» e delle intercettazioni; il federalismo fiscale dopo i recenti intoppi; la scossa all'economia attraverso un complesso di misure ordinarie accompagnate addirittura da un progetto di revisione costituzionale. Ma è credibile immaginare un simile percorso parallelo senza che il conflitto aperto con la magistratura interferisca con l'agenda politica e la condizioni?
La sensazione è che il rischio di corto circuito si avvicini ogni giorno di più. Pochi credono, ad esempio, che una legge controversa e per certi versi esplosiva come quella sul «processo breve», in cui quasi tutti leggono una sorta di amnistia di fatto, possa essere approvata in questo clima.
È vero però che la Lega è ancora disposta a sostenere il disegno di Berlusconi, nonostante le tensioni anche aspre all'interno della maggioranza. E tale sostegno il Carroccio lo garantisce - almeno fino a oggi - sopportandone il prezzo. A cominciare dall'inquietudine crescente della sua base elettorale che non vede chiaro in questo intreccio opaco. Ma i leghisti, è noto, non hanno mai pensato di «mollare il premier», come dice Calderoli. Una decisione che li obbliga a trangugiare la medicina amara in attesa del fatidico federalismo fiscale.