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La caccia ai volumi impone il risiko

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Questo articolo è stato pubblicato il 10 febbraio 2011 alle ore 06:36.

Le ultime grandi fusioni tra Borse risalgono al 2007, data delle operazioni Milano-Londra, Nasdaq-Omx e Cme-Nymex. Oggi, a distanza di tre anni in cui nulla è successo, si torna a ballare: la Borsa di Londra-Milano si fonde con il listino di Toronto e la franco-americana Nyse Euronext parla di nozze con Deutsche Börse. Il tutto a qualche mese dall'Opa lanciata dal listino di Singapore su quello di Sydney. Anche un distratto osservatore si porrebbe una banale domanda: perché, dopo anni di sonno, improvvisamente sono riprese le fusioni tra Borse? Perché proprio oggi si riaprono dossier che sembravano sepolti?
A queste domande si possono dare almeno tre risposte razionali. Uno: la concorrenza dei listini alternativi è sempre più forte e gli investimenti tecnologici sempre più onerosi, per cui le Borse devono unire le forze per aumentare volumi, sinergie e profitti. Due: i prezzi delle azioni delle Borse (che sono quotate come normali società) sono saliti dopo i minimi toccati nel 2009, per cui oggi i listini possono offrire le proprie azioni senza sentirsi «sottovalutati». Tre: la globalizzazione impone che le società quotate di ogni paese incontrino sempre più investitori internazionali.
A caccia di volumi e sinergie
Iniziamo dalla crescente concorrenza. È vero che la competizione, in un settore da decenni monopolistico, è iniziata a fine 2007 con l'entrata in vigore della direttiva europea Mifid (quella che ha rotto il monopolio delle borse tradizionali). È vero che i listini "alternativi", come Chi-X, Turquoise o Bats, hanno iniziato ad operare in Europa sin da allora, cercando di "rubare" scambi sulle azioni. Ma è anche vero che la concorrenza solo ultimamente ha iniziato veramente a mordere.
Se nel 2008 – secondo un'analisi di Emittenti Titoli – i listini alternativi avevano quote di mercato irrisorie, già a fine 2009 attiravano più del 10% degli scambi su azioni europee. Ma è a fine 2010 che la concorrenza diventa insidiosa. Ormai solo il 56,53% delle azioni quotate a Londra sull'indice Ftse 100 viene scambiato veramente sulla Borsa di Londra: il restante 43,47% è ormai comprato e venduto altrove. Su listini alternativi. La Borsa di Bruxelles ha perso addirittura il 55% degli scambi, mentre Parigi il 37%, Francoforte il 31% e Milano il 20%. Non è un caso che siano proprio queste le borse più in cerca di partner. Al contrario di Madrid, che ancora non ha subìto la concorrenza.

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Il problema delle Borse tradizionali è che il loro business da un lato impone investimenti cospicui in tecnologia e dall'altro ha margini di profitto molto bassi. Insomma: a fronte di costi elevati, per realizzare utili le Borse devono far passare sui loro listini ingenti scambi di azioni. Devono aumentare il più possibile i volumi. E dato che la crescente concorrenza porta via volumi alle Borse tradizionali, a queste ultime non resta che una strada: fondersi l'una con l'altra, creare sinergie e aumentare gli scambi geograficamente. Guarda caso, proprio questo stanno facendo.
La fine della crisi
Un altro elemento gioca a favore oggi: il rialzo dei prezzi delle azioni. Anche le Borse, come normalissime società, sono infatti quotate in Borsa: a prescindere dal gioco di parole, questo significa che durante la crisi le loro azioni erano sprofondate. Questo, unito al fatto che nessuno azzardava mosse, aveva bloccato tutte le operazioni: difficilmente, infatti, una società si "svende" e si unisce ad altre quando le sue azioni valgono poco. Ora non è più così. Le azioni del London Stock Exchange sono salite del 148% dai minimi del 2009, quelle di Deutsche Börse del 90%, quelle di Nyse Euronext del 151%. Questo, a detta di alcuni osservatori, favorisce oggi le fusioni.
Mercati globali
C'è poi un motivo più "nazionale", anche se probabilmente minoritario. La teoria economica dice che la combinazione di più listini dovrebbe creare dei pool di liquidità internazionali: sulle azioni quotate a Milano – secondo questa teoria – dovrebbe quindi arrivare extra-liquidità dall'estero. E questo porterebbe benefici a tutte le imprese italiane. «Questa è la logica industriale teorica – osserva Vincenzo Tortorici di McKinsey –. Nell'operatività quotidiana, però, le borse che si sono fuse negli anni passati hanno faticato a creare veramente, per "osmosi", pool internazionali di liquidità. Gli scambi, insomma, sono restati in gran parte locali, spesso per inerzia nei comportamenti degli investitori e degli intermediari. Bisogna dunque vedere quanto tempo ci vorrà per realizzare in concreto questo obiettivo». Insomma, per ora i benefici vanno alle borse, intese come società. Per i sistemi-paese... arriveranno. Forse.
© RIPRODUZIONE RISERVATA di Morya Longo

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