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La fine del rais fa paura al Medio Oriente

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Questo articolo è stato pubblicato il 11 febbraio 2011 alle ore 08:01.

GERUSALEMME. Ieri pomeriggio una voce è circolata d'improvviso per il Medio Oriente: è morto re Abdullah d'Arabia Saudita. All'età di 86 anni, si diceva, un infarto lo aveva stroncato in Marocco dove si stava riprendendo da un'operazione fatta due mesi fa negli Stati Uniti. La notizia era una bufala. Ma la radio israeliana in lingua ebraica e araba e quelle di molti altri paesi della regione hanno sentito il bisogno di trasmettere la smentita con soddisfazione esagerata.

Nella palude mediorientale dei conflitti, delle tensioni, dei regimi e dei volti immutabili che il trucco e la propaganda rendono senza età, due cambiamenti così radicali nello stesso giorno sarebbero stati troppi. Un terremoto perfetto nei due paesi arabi più importanti per la geopolitica, l'economia, la produzione energetica, i commerci della regione e del mondo; alla base di due pilastri di stabilità: precaria come tutto qui ma sempre stabilità. In Arabia Saudita non sarebbe stata una rivoluzione. Ma il meccanismo di successione a Riad è così evanescente che anche la scomparsa di un re stabilmente sul suo trono avrebbe provocato nuove ansie. Le cose si sono così incancrenite che da Gibilterra a Ormuz ogni transizione è un pericolo.

L'uscita di scena di Mubarak, la Sfinge come viene chiamato per l'apparente immortalità e la stessa inespressività della statua, basta da sola per rendere più tesi i fili della regione. Era una conseguenza prevista. Il "muro della paura" che da decenni impediva agli arabi di gridare che i loro dittatori erano alla fine nudi, era stato abbattuto in piazza al Tahrir. Ma ora che la demolizione è stata così radicale da abbattere anche uno dei tanti presunti immortali della regione, tutti quelli che sono fuori dalla piazza del Cairo - il resto del Medio Oriente - sono più preoccupati che elettrizzati.

Micael Oren, il giovane ambasciatore israeliano a Washington ieri esprimeva con molta chiarezza le preoccupazioni del suo paese: «Il popolo israeliano vorrebbe vedere per il popolo egiziano le stesse libertà che abbiamo noi. Ma c'è anche ansia e preoccupazione perché abbiamo visto il processo democratico dirottato dai radicali in Iran e a Gaza». Ehud Barak, il ministro della Difesa, è a Washington da due giorni per avere le rassicurazioni che cerca Israele: ha visto il segretario di stato, quello alla Difesa, il consigliere per la sicurezza nazionale, i generali.

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Tags Correlati: Arabia Saudita | Ehud Barak | Hosni Mubarak | Israele | Medio Oriente | Micael Oren | Omar Suleiman | Politica | Stati Uniti d'America |

 

Ma le preoccupazioni di Israele sono le preoccupazioni di tutti. C'è forse qualcosa di ambiguo se le democrazie occidentali e l'unica in Medio Oriente (l'israeliana) temono le conseguenze di una naturale spinta di libertà; se l'uscita di scena di un uomo al potere da 30 anni preoccupa anziché entusiasmare. Ma è inutile fingere di ignorare che le annotazioni di Oren sono quelle di tutti.

Il problema non è più Hosni Mubarak: l'erosione del suo potere ha avuto tre settimane di tempo per essere digerita. Ma cosa accadrà adesso: se gli egiziani si accontenteranno di questa vittoria, accettando la transizione promessa da Omar Suleiman; o se da domani rincominceranno a scavare anche sotto il piedistallo del vicepresidente chiamato a fare il re taumaturgo, possibilmente anche democratico dopo una carriera vissuta nell'apparato repressivo dell'ancien régime. Essere il problema e contemporaneamente la soluzione è molto comune in Medio Oriente.

Se accadesse questo, se la fase d'incertezza e di disordini diventasse senza una fine, sarebbe il terrore a diffondersi. Gli israeliani incomincerebbero a studiare come sempre interventi militari preventivi. Ma su Suleiman contano anche gli americani, gli europei, i paesi moderati e fragili come la Giordania; gli emirati del Golfo che non si sentono più protetti dallo scudo della loro monumentale ricchezza. Perfino i più radicali che hanno smesso di fingere soddisfazione per «un altro fallimento americano», non vedono nulla di buono nella rivoluzione egiziana. Religiosi o ideologici, anche i loro regimi militarizzati da oggi sono a rischio.

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