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Questo articolo è stato pubblicato il 12 febbraio 2011 alle ore 09:32.
GERUSALEMME. «Dietro le quinte si è dipanato un dramma. Gli uomini che hanno convinto Mubarak ad andarsene, avevano fatto carriera con lui, esisteva fra loro una relazione personale. Avevano e continuano ad avere la stessa paura del caos che i Fratelli musulmani potrebbero scatenare». Come la piazza al Cairo, anche Zvi Mazel si rilassa davanti alla televisione nel suo salotto. Al-Jazeera canale in lingua araba, non parla più: manda solo i suoni dell'entusiasmo egiziano.
Sembra un fatto personale. In un certo senso lo è. Giovane diplomatico, nel 1982 Zvi Mazel ha aperto l'ambasciata israeliana al Cairo. Poi vi è tornato come ambasciatore dal 1996 al 2001 e di nuovo molte altre volte. Per quanto a titolo personale perché in pensione, Mazel è l'unico autorizzato a parlare da un governo israeliano attentissimo a dire lo stretto indispensabile - quasi nulla - sulle vicende egiziane. «È un momento delicato», ammette.
Dopo questo golpe militare-istituzionale cosa accadrà adesso?
L'uomo doveva essere Omar Suleiman. Ha 76 anni, non poteva candidarsi per più di un mandato: un ideale presidente di transizione. Con lui l'Egitto avrebbe ritrovato stabilità. Ora i militari dovranno cambiare il sistema, renderlo più democratico.
Alla fine potrebbero essere bruciati anche loro.
Nella storia delle rivoluzioni popolari non c'è un'agenda e all'inizio nemmeno un leader. Non sai mai come va a finire.
Gli israeliani dovrebbero essere i meglio informati.
Sin dall'inizio eravamo convinti che Mubarak fosse politicamente finito. Si dice che abbia un tumore alla tiroide ma in tv sembrava molto in forma, date le circostanze. Il regime però è un'altra cosa: l'esercito è il regime, è in ogni istituzione civile. Aveva schierato quattro divisioni, 6mila uomini attorno al Cairo, hanno garantito l'approvvigionamento alimentare, hanno fatto riaprire le banche. Hanno preso il controllo politico del paese solo per evitare il caos.
Perché alla fine hanno scaricato Mubarak?
Non era questo l'obiettivo. Era evidente che l'esercito, Suleiman e Mubarak avessero un disegno comune, che stessero cercando di difendere il regime e garantire un'uscita dignitosa al presidente che avrebbe dovuto restare e al tempo stesso andarsene: in quei sei mesi di transizione non sarebbe stato lui a decidere. Poi nelle ultime 48 ore il progetto era saltato. L'esercito doveva garantire una continuità e impedire ai Fratelli musulmani di dirottare la rivoluzione.