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Perché la rivoluzione in Egitto è un bene per Israele

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Questo articolo è stato pubblicato il 12 febbraio 2011 alle ore 13:44.

Non vedo l'ora di ritornare al Cairo. Ho cari ricordi legati ai due anni che vi trascorsi dal 1965 al 1967. Rammento che sorseggiavo delizioso tè nero nel suk Khan al-Khalili nella Città Vecchia, che trascorrevo intere giornate nei finesettimana nella sala del tè del Groppi, e che prendevo il treno per recarmi a Maadi, alla periferia meridionale del Cairo, dove frequentavo il liceo internazionale. Il ricordo degli affollati marciapiedi della grande Piazza Tahrir è vivo nella mia memoria. La piazza era sempre gremita da una folla enorme, un mosaico in perpetuo movimento di confuso e delicato sgomitare. Era una città rumorosa, abitata da individui ricchissimi e inconsolabilmente poveri, e nei tre decenni di governo del presidente Hosni Mubarak l'enorme divario tra queste due popolazioni si è allargato a dismisura.

Vorrei trovarmi lì, oggi, ed essere solidale con le migliaia di giovani e vecchi egiziani, per celebrare la fine del loro terribile regime. Ciò che si svolge sotto i nostri occhi è qualcosa di più della fine di un governo: è nientemeno che l'aurora di un nuovo ordine liberale in Egitto. E questa non è una buona notizia soltanto per i maltrattati egiziani, ma anche per gli Stati Uniti e per Israele.

Il sollevamento popolare in Egitto segna la fine di due generazioni di paralisi e stagnazione totale nel mondo arabo, che ebbe inizio con la "Naksa" (letteralmente "battuta d'arresto"), la parola con la quale nel mondo arabo si designa la sconfitta nella guerra del 1967. Quella disfatta spalancò le porte a una cinica era di autocrazia, corruzione, repressione e fatalismo. Segnò il fallimento totale del progetto arabo laico e umiliò profondamente l'egiziano Gamal Abdel Nasser, l'ultimo leader arabo che potesse plausibilmente affermare di rispecchiare la volontà del suo popolo. La sconfitta di Nasser fu anche il fallimento dell'idea che il mondo arabo avesse davanti a sé un futuro progressista e modernista.

Nella scia della guerra del 1967, Mohamed Heikal, l'illustre esperto di Egitto, ammonì e ribadì più volte che il potere nel mondo arabo era passato dalla thawra ("la rivoluzione") alla tharwa ("la ricchezza"). Non a caso la sconfitta del nazionalismo arabo laico creò un vuoto intellettuale che fu subito riempito dalla religione. Come disse Sadik al-Azm, il filosofo siriano che aveva studiato a Yale, "allo stesso tempo, i regimi politici responsabili della sconfitta militare iniziarono a sfruttare la religione in generale e l'Islam in particolare per una campagna strutturata appositamente per mettersi al riparo dalle conseguenze della sconfitta".

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Tags Correlati: Al Jazeera | Aviazione Militare | Barack Obama | Benjamin Netanyahu | CIA | Cnn | Elezioni | Gamal Abdel | Habib Mamdouh | Jimmy Carter | Likud | Medio Oriente | Mohamed Heikal | Porte Aperte | Sadik Al-Azm | Stati Uniti d'America | Università di Yale

 

Il successore di Nasser, Anwar Sadat, adottò il linguaggio dell'Islam, in parte nel tentativo di cooptare i Fratelli musulmani e darsi una parvenza di legittimità. Usò la mano pesante contro la sinistra laica e spinse sempre più a destra il regime con le sue politiche delle Porte Aperte, accogliendo favorevolmente gli investimenti e l'influenza dell'America. All'indomani della guerra dell'ottobre 1973, Sadat fu considerato per qualche tempo un autentico leader popolare nazionale. Nel novembre 1977 colse tutti di sorpresa prendendo un aereo e atterrando a Gerusalemme. La maggior parte degli egiziani era stanca di combattere e accolse positivamente i successivi accordi di Camp David e il trattato di pace tra Egitto e Israele. Al tempo stesso, però, Israele era ancora visto con sospetto e perfino ostilità. Quella è sempre stata una pace "fredda".

Poi, come sappiamo, Sadat fu assassinato da un gruppo di soldati dell'esercito legati a una cellula di islamisti radicali. L'uomo che gli succedette al governo, Hosni Mubarak, in precedenza appartenente all'aeronautica militare egiziana, era insignificante dal punto di vista politico.

Mubarak divenne l'antitesi di Nasser. Utilizzò l'apparato militare dello stato di polizia populista di Nasser per restare aggrappato al potere, ma abbandonò il populismo. Al contrario, si circondò di una classe mercantesca di raccomandati, che egli ha saputo coltivare nel tempo, concedendo appalti di governo e con esplicita concussione. Nasser morì con un conto corrente di modesta entità. La famiglia e i collaboratori di Mubarak hanno ammassato, da quanto risulta, fortune nell'ordine dei 40-70 miliardi di dollari. Il nuovo faraone ha governato con arroganza, ed è stato tollerato dall'opinione pubblica per fatalismo, per impotenza.

Adesso, però, il popolo egiziano guidato dalla generazione dei più giovani, è determinato a mandarlo via, vuole costringerlo ad andarsene e lasciare senza tante cerimonie il potere. Senza dubbio Mubarak presto se ne andrà: forse domani, forse tra qualche settimana o qualche mese. In ogni caso prima o poi se ne andrà. E con lui si chiuderà un'epoca.
L'amministrazione del presidente degli Stati Uniti Barack Obama non ha controllo alcuno su questi eventi. Ma ormai sono più di due settimane che la popolazione si è ribellata. Washington avrebbe dovuto capire molto prima che sarebbe disastroso se la nuova era iniziasse senza la chiara e inequivocabile percezione che gli Stati Uniti sono al fianco del popolo egiziano. Non è più il momento di parlare di transizione ordinata, di trasferimento di poteri. Queste parole inviano il messaggio sbagliato ai democratici che affollano le strade e le piazze e che finora, da ogni testimonianza, risultano essersi comportati con ordine. Sanno per esperienza personale, e noi tutti lo abbiamo visto alla Cnn e su Al Jazeera, che sono stati soltanto i sicari di regime ad aver seminato disordini e violenze nella sollevazione popolare.

Altro grossolano e madornale errore dell'amministrazione americana è aver reso noto il suo pur tiepido appoggio a Omar Suleiman, il capo dell'intelligence di Mubarak. Proprio l'altro giorno, il vicepresidente Suleiman appena nominato ha avuto la sfacciataggine di dire che gli egiziani non hanno ancora "una cultura democratica". Forse tali parole non dovrebbero stupire, tenuto conto che sono state pronunciate dal capo della polizia segreta che da sempre è complice delle "detenzioni e dei trasferimenti illegali" dell'America. Mamdouh Habib, un cittadino australiano nato in Egitto, catturato dalle forze di sicurezza pachistane nell'ottobre 2001 e in seguito trasportato segretamente dalla Cia in Egitto, afferma nel suo libro di memorie pubblicato nel 2009 e intitolato My Story: The Tale of a Terrorist Who Wasn't (La mia storia: il racconto di un terrorista mai stato tale) di essere stato interrogato e torturato di persona da Suleiman.

Come è mai possibile che l'Amministrazione Obama abbia potuto legare le proprie sorti a un uomo simile, anche se brevemente? È inspiegabile. Forse l'amministrazione esita adesso ad abbracciare fino in fondo lo tsunami populista nel timore che la caduta di Mubarak stia a significare la fine del regime di Camp David, che ha in ogni caso assicurato la pace tra Egitto e Israele per trent'anni.

Ma un Egitto democratico sul lungo periodo si potrebbe rivelare per Israele qualcosa di molto meglio dell'agonizzante accordo di pace di Camp David. All'epoca, gli accordi del 1978 di Camp David del presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter, seguiti dal Trattato di Pace del 1979 tra Egitto e Israele, furono un trionfo diplomatico. I successori di Carter, invece, omisero di esercitare pressioni sui primi ministri di Israele per far loro allentare la presa sui Territori occupati nel 1967. Nel corso dei decenni, Washington ha continuato sistematicamente a condannare la costruzione di sempre più insediamenti in Cisgiordania, ma non ha fatto assolutamente nulla per fermarli. Così com'è, Camp David è screditato agli occhi delle masse egiziane, tanto quanto lo è lo stesso Mubarak. In realtà, una delle ragioni per le quali quest'ultimo è così disprezzato è che per trent'anni ha fatto dell'Egitto un complice dell'unilateralismo di Israele.

Ciò non significa in ogni caso che l'Egitto dell'era che si è aperta con la manifestazione in Piazza Tahrir affronterà militarmente Israele, né che interromperà le relazioni diplomatiche. Non c'è nessuna voglia in Egitto di combattere una guerra. Nondimeno la pace fredda che Israele ha messo a punto con i dittatori arabi si sta allentando. Questo fatto a breve termine potrebbe conferire maggiore autorità agli ideologi del Likud del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che potrebbero sostenere che i democratici arabi stanno per "delegittimare" Israele. Ma sul lungo periodo, il comparire di una politica democratica araba dovrebbe convincere l'elettorato israeliano che i loro leader sono diventati troppo compiacenti, troppo isolazionisti. Dopo Tahrir, una grande maggioranza di israeliani potrebbe concludere di non poter vivere in quella regione senza aver preventivamente stretto una pace reale con i propri vicini.

Il muro non è mai stato una garanzia concreta delle esigenze di sicurezza di Israele, e lo sarà ancora meno quando un governo democraticamente eletto governerà l'Egitto. La politica della separazione – in ebraico hafrada – è stata una strategia efficace sul breve periodo solo quando il più grande Paese arabo era disposto a presidiare la frontiera meridionale di Israele e a tenere Hamas chiusa nella sua galera di Gaza. Nessun governo legittimo al Cairo, però, sarà in grado di portare avanti la sua complicità con il blocco di Gaza, e tanto più qualora nel nuovo governo dovessero entrare i Fratelli musulmani.
In realtà, Israele si ritroverà sotto rinnovate pressioni per trattare sia con Hamas sia con l'Autorità Palestinese in Cisgiordania. L'ideologia di Hamas è sicuramente spregevole, ma Hamas ha pur sempre vinto le ultime elezioni legislative palestinesi del 2006 e ha più o meno rispettato il cessate-il-fuoco con Israele dall'inizio del 2009. Nel dicembre 2010 il primo ministro di Hamas a Gaza, Ismail Haniyeh, ha annunciato che il suo partito rispetterà e si conformerà a qualsiasi accordo di pace dovesse essere ratificato da un referendum del popolo palestinese. Oltretutto, come abbiamo appreso di recente dai Palestine Papers di Al Jazeera – i documenti trafugati riguardanti i colloqui del 2008 tra Abbas e Olmert – le due controparti non sono così distanti tra loro in rapporto a un accordo di pace a tutto campo che dovrebbe portare alla creazione di uno stato palestinese.

La buona notizia, quindi è la seguente: ciò che sta accadendo in questi giorni in Piazza Tahrir potrebbe di fatto esortare le leadership politiche di Washington, Gerusalemme e Ramallah e indurle finalmente a prospettare un accordo di pace israelo-palestinese che tutti noi sappiamo essere necessario e indispensabile. E se questo non dovesse accadere? In mancanza di un accordo di pace a tutto campo, Israele e Stati Uniti si ritroveranno sempre più isolati nel nuovo Medio Oriente.

Certo, vi sono fattori imponderabili e rischi di vario tipo. Ma al momento il vero pericolo non è quello di uno spostamento strategico nella regione, bensì la possibilità che Suleiman o qualche altro accolito di Mubarak possa utilizzare l'esercito egiziano per un colpo di stato contro la gente di Piazza Tahrir. Se ciò dovesse accadere, Washington dovrebbe interrompere immediatamente le relazioni con il nuovo dittatore e imporre sanzioni economiche. Fare qualsiasi altra cosa lancerebbe alla nuova generazione di arabi il messaggio che, al pari di Mubarak e Suleiman, anche gli americani non credono che gli arabi siano pronti per la democrazia.

Grazie al cielo, non mi sembra che l'Egitto si stia avviando in quella direzione. Qualche altra cosa sta accadendo per le strade del mondo arabo, qualcosa di straordinariamente positivo per l'Egitto in primis, ma altresì per Israele e l'America. E dovremmo tutti accoglierlo a braccia aperte. (Traduzione di Anna Bissanti)
c. 2010 Foreign Policy

Kai Bird è uno storico, vincitore del Premio Pulitzer. Il suo libro più recente si intitola "Crossing Mandelbaum Gate: Coming of Age Between the Arabs and Israelis, 1956-1978": con questo libro è stato eletto finalista per il National Book Critic Circle Award nel settore delle autobiografie.

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