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Intervista a John Elkann: «Da Exor all'Italia, tutti dobbiamo ora imparare a vivere con il dubbio»

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Questo articolo è stato pubblicato il 12 febbraio 2011 alle ore 09:34.

Quando era ancora solo un laureando al Politecnico di Torino, il nonno, l'avvocato Agnelli, gli diede l'incarico di guidare il gruppo di manager, informatici e giornalisti che doveva far transitare l'intero universo collegato alla Fiat, dai metalmeccanici, a La Stampa, la Ferrari, la Juventus, la finanza, nel mondo, allora neonato, del web. Qualcuno era scettico che il giovane John Elkann ce la facesse, avrebbe sbagliato nel cedere troppo ai più anziani o avrebbe fatto l'arrogante? Invece John Elkann, "l'ingegnere" come tanti lo chiamano ora, se la cavò, tra Torino e Silicon Valley, nel primo incarico complesso di una carriera e una vita complesse: «Duro destino avere un destino» scriveva Italo Calvino.

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Dopo dieci anni, ora sposato, con due figli, presidente di Fiat, John Elkann assume ora anche la carica di amministratore delegato di Exor e riflette con il Sole 24 Ore sulla nuova squadra che ha messo in campo e le sfide dei prossimi, turbolenti ed affascinanti, sviluppi dell'economia globale: «Negli ultimi anni abbiamo riorganizzato, abbiamo semplificato, molto lavoro e molto tempo sembra passato da quando ci chiamavamo Ifi, Ifil, si ragionava e discuteva di spin off. Ora facciamo i conti con una unica società di investimento, Exor. Fiat si è molto rafforzata e abbiamo messo delle solide basi per costruire il nostro futuro».

Solo poco tempo fa il Financial Times e l'Economist non scommettevano un penny sul futuro della Fiat: «Vero, si è trattato di un rilancio straordinario. Ma l'auto non è un'industria facile. La sovracapacità del mercato mondiale è un handicap per tutti. La crescita dei paesi emergenti, dove siamo presenti in forze, ha cambiato l'equazione. Vedere Fiat che è presente in Europa, in Brasile e negli Stati Uniti, con l'alleanza con Chrysler, è una grande opportunità, parliamo di un mercato immenso. È il frutto di un duro lavoro, compiuto da tutta l'azienda, il cui merito va soprattutto a Sergio Marchionne».

A desso in Exor Tobias Brown diventa chief investment officer, con la responsabilità su tutti gli investimenti, e Alessandro Nasi diventa responsabile delle attività negli Usa. Qualcuno in Italia già parla di "trasferimento" a Hong Kong: ma quali sono le caratteristiche del gruppo oggi, globale, familiare o torinese? XXI secolo o tradizione?

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Tags Correlati: Asia | Barack Obama | Economist | Emmanuel Rahm | Enrico Vellano | Exor | Ferrari | Fiat | Giovannino Agnelli | Imprese | Italo Calvino | Jaki | John Elkann | Juventus | Stati Uniti d'America | Torino | Umberto Agnelli | Wal Mart

 

«Le contraddizioni e i paradossi fanno parte della vita. Riuscire a conciliare le differenze, senza dover escludere o negare le diversità, è la chiave di tutto, anche per le aziende. Consideriamo una società come la nostra: cerca di prendere il meglio della tradizione di aziende familiari - noi siamo nell'industria da oltre un secolo ormai, stiamo parlando di cinque generazioni - ma al tempo stesso risponde alle esigenze di professionalità del tempo globale. La squadra comprende Tobias Brown, dialogo con lui già da qualche anno, è un investitore di grande esperienza, che ha l'Asia nel Dna, non deve "impararla" perché la vive, come persona e sul lavoro. Alessandro Nasi rappresenterà la mia famiglia in America: porta con sé una grande esperienza di lavoro e ha passato più della metà della sua vita negli Stati Uniti. Enrico Vellano avrà la responsabilità della struttura che svolgerà le funzioni centrali della società, con base a Torino».

Parla quasi da senior adesso, solo poco tempo fa tanti lo chiamavano più "Jaki" che "ingegnere": che effetto le fa? «Ho 34 anni, e quando lavoro fuori dall'Italia spesso non sono neppure più il più giovane intorno al tavolo. So di rappresentare una storia secolare, ma sono anche consapevole che i mercati che dobbiamo affrontare rispettano e ammirano il nostro passato, ma poi giudicano senza sconti il nostro presente. E qui Exor non vuole restare indietro».

Com'è il mondo degli affari di oggi dalla sua nuova posizione? «Dobbiamo ragionare, e ragioneremo, di investimenti a lungo termine. Le vedute di breve hanno logorato tutti. Pensi all'America, che lei ben conosce. New York è come un porto di mare, una grande base mercantile e in Europa spesso colpisce la nostra fantasia. Ma è il Midwest, Chicago, l'America delle radici - dove gruppi familiari come il nostro, nella manifattura e nella finanza continuano ad esistere ancor oggi - che ne costituiscono l'ossatura. Ho visto il Superbowl, la finale del campionato di football americano, a casa di una di queste famiglie ed ero colpito dalla loro vitalità. Ci sono realtà familiari, in America e non solo, con cui abbiamo molte affinità e da cui possiamo imparare: i Walton dei supermercati Wal Mart, i Ridley, i Pritzker».

Exor va a Hong Kong, la Fiat va a Detroit, addio Italia, addio Torino: sarà così? Un destino ineludibile? «No, e dipende da noi. Quel che ho capito è che sopravvivono solo le organizzazioni capaci di evolversi e di adattarsi. Dobbiamo, ciascuno di noi e le nostre aziende, rimetterci sempre in discussione, partendo dalla realtà non dai nostri desideri o aspirazioni. Ogni istituzione, non importa quanto antica, deve guardare al presente senza ansia, con la serena consapevolezza che non saprai mai cosa accadrà - vedi le notizie che ci arrivano mentre parliamo dall'Egitto, chi le avrebbe previste solo poche settimane fa?».

Torniamo sul caso Fiat italiana o meno, tanti aspettano di sapere come la pensa il nipote dell'Avvocato. «Partiamo dalla sfida fondamentale che abbiamo lanciato e vinto. Se la dimentichiamo così in fretta, se dimentichiamo che poco tempo fa pochissimi erano disposti a scommettere sulla nostra sopravvivenza, esperti del ramo inclusi, scontiamo il lavoro fatto da tutti in Fiat. Guardiamo all'alleanza Chrysler: che cosa sarebbe oggi di Fiat senza Chrysler? Saremmo come prima? Oggi siamo una realtà multipolare e questo è una grande forza».

Sergio Marchionne chiede spesso, con grinta che a qualcuno non piace, perché mai Fiat, perché mai qualunque azienda dovrebbe investire in Italia, oggi. Lei cosa risponde? «Intanto la migliore risposta l'ha data la Fiat, che ha già grossi investimenti in Italia e ne ha programmati altri. Ciò detto, è un fatto che l'Italia debba guardare a quegli indicatori che la danno indietro alla media dell'Unione europea sulle performances economiche. Penso per esempio alla produttività, alla competitività. Ho parlato ieri con Emmanuel Rahm, l'ex braccio destro di Barack Obama che sta adesso correndo per essere sindaco democratico di Chicago: la sua campagna è portare a Chicago investimenti, infrastrutture, creare occupazione e ridurre i costi. Quando ho visto la sua energia mi son chiesto: perché non ci battiamo anche noi? Sostengo il mio paese, ma per favore senza ipocrisie e senza nascondersi anche quel che non funziona. Il nostro è un grande paese e all'estero tanti lo ammirano, ma dobbiamo accettare di misurarsi senza paura con il futuro».

Negli anni duri, prima e dopo la morte di suo nonno Gianni e di Umberto Agnelli, e prima quando il lutto di Giovannino Agnelli l'aveva lanciata in prima linea così giovane, le è mai venuto in mente partita perduta, non ce la faremo, la Fiat è spacciata e toccherà a me la sconfitta dopo un secolo? «Non sono mai stato pessimista. Ho sempre vissuto invece con il dubbio, come è giusto: anche quando le cose vanno bene occorre non abbassare la guardia. Dobbiamo imparare a convivere con l'incertezza e il cambiamento e la chiave sta proprio in questo: non dare nulla per acquisito».

Condivide il vertice con Marchionne, forse l'uomo del giorno in Italia, amato, criticato, detestato, invidiato. Chi è davvero l'uomo dal pullover? «È una persona che ha studiato molto, che conosce la filosofia, la storia, il diritto. Che ha un approccio profondo alla vita e al lavoro. Chiede molto ai suoi collaboratori, ma ancora di più a se stesso. Ricorda la pubblicità Amarcord, con cui lanciammo la 500? Ecco là dentro c'è Sergio».

Dove si vede tra dieci anni ingegnere? «Lavoriamo sul lungo termine: il che sembra un paradosso in un mondo impaziente. Invece è la chiave del successo, far vivere valori tradizionali con le sfide del presente. Sono sereno, fiducioso».

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