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Questo articolo è stato pubblicato il 14 febbraio 2011 alle ore 08:40.
L'ultima modifica è del 14 febbraio 2011 alle ore 06:44.
Il dibattito sul federalismo fiscale è stato finora viziato da un'ambiguità di fondo, contenuta nel disegno di legge originario, ma anche alimentata dalla propaganda politica. Poiché la legge delega recita che l'attuazione del fisco federale debba avvenire senza oneri per lo Stato e a parità di pressione tributaria, se ne è concluso che tutti avrebbero pagato meno tasse o almeno non più tasse di prima.
Questa è anche la promessa con cui il governo ha sostenuto il provvedimento: il federalismo porta meno tasse. Ma come mostrano i servizi pubblicati nelle pagine 2 e 3, questo non è necessariamente vero. Anche a parità di pressione tributaria, se la riforma sposta il carico fiscale dei tributi locali da alcuni cespiti o da alcuni contribuenti ad altri, è ovvio che qualcuno ci può perdere e qualcun altro guadagnare.
E nel caso del decreto sul federalismo municipale – che sarà con tutta probabilità approvato dal parlamento dopo il pareggio in commissione bicamerale – i perdenti sono per molti aspetti le imprese.
Questo è certamente vero nel caso dell'imposta municipale unica. Questo perché le persone fisiche proprietarie di seconde case, a fronte dell'inasprimento dell'aliquota sul proprio patrimonio immobiliare rispetto all'attuale Ici, possono contare su una riduzione dell'Irpef sui redditi fondiari che non dovranno più dichiarare. Un vantaggio che non c'è per le imprese. E poiché l'aumento dell'Imu, per mantenere il gettito inalterato, deve esattamente compensare la perdita indotta dalla soppressione dell'Irpef sui redditi degli immobili, ne risulta automaticamente una perdita per le persone giuridiche.
E questo è vero in qualche misura anche per l'imposta di soggiorno, il cui maggior onere sarà in parte assorbito dalle aziende alberghiere sotto forma di minori prezzi per la clientela, e per l'ampliamento degli spazi per l'imposta di scopo, che di nuovo fa riferimento alla sola imposta municipale.
Paradossalmente, parte di questi effetti sono proprio il risultato, probabilmente non voluto, dell'aver tanto insistito sul fatto che il federalismo fiscale avrebbe portato meno tasse per tutti. Nelle versioni iniziali del decreto si prevedeva infatti che l'aliquota Imu sulle imprese sarebbe stata la metà di quella sulle seconde case; quando ci si è accorti però che ciò avrebbe significato un'aliquota ordinaria dell'imposta comunale unica superiore all'1%, a fronte dello 0,7% massimo per l'Ici attuale, si è rapidamente fatto marcia indietro, timorosi che l'aumento evidente dell'aliquota avrebbe contraddetto le promesse ed eroso il consenso per la riforma. Un approccio più moderato al tema e promesse meno incaute avrebbero probabilmente consentito una soluzione migliore.