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Questo articolo è stato pubblicato il 15 febbraio 2011 alle ore 14:06.
LAMPEDUSA. Nemmeno i novantenni dell'isola dicono di ricordarsi scene simili a quelle che si vivono a Lampedusa. In giro per le strade e sulle piazze ci sono più tunisini che siciliani ed è pieno dei giovani sbarcati gli scorsi giorni che passeggiano su e giù per Corso Roma, portano buste della spesa piene di viveri, si mettono in fila davanti ai bancomat o ai rivenditori di sigarette e cercano ardentemente rivendite di sim per telefonare a casa o a parenti e amici chissà dove in Europa. Mai la convivenza fra migranti ed isolani era stata così diffusa. E se le cose continuano così, la fitta e precaria presenza tunisina a Lampedusa potrebbe durare a lungo.
Perché la smobilitazioni va a rilento. Lunedì i trasferiti sono stati 200, per oggi sono previste un centinaio di partenze. Un netto rallentamento, rispetto ai mille trasferimenti immediatamente organizzati con ponti aerei e traghetti fra venerdì e sabato, all'indomani dei primi arrivi. «Con l'apertura del centro siamo usciti dallo stato di emergenza, ora tutti hanno un tetto sotto cui dormire, ma la gestione dei rientri sembra decisamente congestionata – ha spiegato in conferenza stampa Silvia Boldrini, il presidente dell'alto commissariato dei rifugiati – e ci auguriamo che le autorità facciano di tutto risolvere i problemi logistici in corso>. Il centro è stato riaperto improvvisamente per superare l'emergenza e togliere i tunisini dalle notti all'addiaccio in strada o sui moli. Il suo personale fino alla scorsa settima era in cassa integrazione, anche se negli ultimi venti tre mesi non aveva mai smesso di lavorare e gestiva l'accoglienza dei piccoli gruppi di arrivi al suo esterno. Ma ora, per far fronte all'emergenza, si aspettano da un giorno all'altro nuove forze.
L'ex Centro di identificazione ed espulsione (Cie)e di Lampedusa, tecnicamente, è divenuto un Cda, cioè un centro di prima accoglienza da cui si è liberi di entrare e uscire indisturbati, senza patire alcuna detenzione. E se all'inizio i ragazzi temevano di abbandonarlo, perché aspettavano di essere imbarcati per la Sicilia o il resto d'Italia da un momento all'altro, con lo scorrere delle ore hanno capito che le tempistiche sarebbero state molto più lunghe e dilazionate e sono così tornati ad addentrarsi in città. Ora siedono sulle panchine dei parchi, su tavolini all'aperto, consumano nei bar e negli alimentari. In un primo momento, nel timore che potessero nascere attriti con gli abitanti dell'isola, i coordinatori di Save the Children e dell'Oim hanno cercato di convincerli a restare nel centro, ma non ci sono riusciti.