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Questo articolo è stato pubblicato il 19 febbraio 2011 alle ore 15:02.
L'ultima modifica è del 19 febbraio 2011 alle ore 15:03.
Nell'Italia politica dominata dai tatticismi, l'unico che sembra avere una strategia, sebbene controversa, è Silvio Berlusconi. Una strategia che si riassume in una parola: resistere. Resistere il più possibile fidando su una maggioranza parlamentare semi-blindata che non ha voglia di farsi rimettere in discussione a breve scadenza attraverso il voto anticipato.
Questa «resistenza» comporta dei prezzi. Per esempio, accettare che la Lega si dissoci dalla decisione governativa di fissare la festa nazionale del 17 marzo. E naturalmente non abbraccia una prospettiva di grande respiro. La riforma della giustizia attesa da anni resta un fantasma inafferrabile: al suo posto si ripropone la legge che regola le intercettazioni telefoniche. Tempo fa venne abbandonata fra le polemiche, ora riemerge mentre sullo sfondo si riparla di immunità parlamentare.
È chiaro che Berlusconi sta combattendo per la sua vita politica. Le iniziative ministeriali in corso sono tutte collegate alla linea difensiva in vista del processo del 6 aprile (un appuntamento da frenare o rinviare). Ma esse non sarebbero possibili se il centrodestra non si sentisse rinfrancato nei numeri parlamentari. E questo non dipende solo dal «potere finanziario» di Berlusconi, come dice Fini: un eufemismo per insinuare che il presidente del Consiglio usa il denaro e il potere per attrarre i delusi di «Futuro e Libertà». Il punto è l'inconsistenza politica dell'opposizione.
Il naufragio nei tatticismi e nelle ambiguità coinvolge in primo luogo, come tutti hanno visto, il partito del presidente della Camera, cioè l'anello debole della catena. Ma investe anche gli altri protagonisti. Dal momento in cui Bossi ha confermato di voler restare a fianco di Berlusconi, è andato in crisi il piano concepito da D'Alema: preparare le elezioni sulla base di un'alleanza cosiddetta «costituzionale». Da Casini e Fini a Bersani e Vendola, cercando di lasciar fuori il solo Di Pietro.
L'operazione non è riuscita e ora il «terzo polo» si riscopre alternativo alla sinistra (vedi Casini, ma anche quel che resta dei finiani). Questi strappi peraltro non sono esenti da conseguenze. Le oscillazioni del «terzo polo» trasmettono un senso d'incertezza. Occorrerebbe che il leader dell'Udc, insieme a Fini, stabilisse una volta per tutte qual è la rotta: mai con il Pd? Oppure alleati in qualche circostanza? In tal caso, quale circostanza?