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La sedia vuota dell'Europa mediterranea

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Questo articolo è stato pubblicato il 20 febbraio 2011 alle ore 08:11.

Trent'anni fa, da professore poco più che quarantenne, passai a Washington un lungo anno sabbatico. La quotidiana lettura dei giornali americani (che allora difficilmente si faceva se non si era in America) mi fece percepire una minorità italiana che mi dispiacque non poco. Si trovavano spesso articoli su quello che accadeva in Inghilterra, in Francia o in Germania, assai più di rado capitava di leggere qualcosa che riguardasse l'Italia. Ne chiesi conto ai giornalisti che stando a Washington ebbi modo di conoscere e la loro risposta fu tranchant. Gli altri tre erano paesi che contavano e di cui perciò meritava raccontare le vicende interne. Noi contavamo di meno e quindi meritavamo attenzione solo quando facevamo qualcosa che avesse una evidente rilevanza esterna, ad esempio, in quel periodo, l'accettazione dei missili Cruise sul nostro territorio.


Mi trovo ora a New York per un breve periodo e quel ricordo mi è affiorato alla mente pensando non all'Italia (che desta anzi un interesse mai visto per le sue peculiari vicende interne), ma all'Europa, che mi sembra oggi nelle condizioni dell'Italia di allora.


N é mi riferisco soltanto ai giornali, mi riferisco alla stessa Amministrazione, delle cui priorità ho avuto modo di discutere con gli amici del Council for Foreign Relations, che mi fanno la gentilezza di una chiacchierata ogni volta che vengo.

È stato per primo il direttore del Council, Richard Haass, a confermarmi che interessati alle vicende europee sono solo quelli che seguono le questioni finanziarie. Ma se si va a ciò che più interessa l'America sia sul terreno della tradizionale politica estera, sia su quello delle azioni che vanno impostate per lo sviluppo sostenibile del mondo, all'Europa non si pensa. Si lavora da soli o si infittiscono i rapporti con i paesi maggiori degli altri continenti, a partire ovviamente da quelli asiatici.

Gli indizi di questa amara verità sono i più diversi. È venuto qui Nicolas Sarkozy, nella sua duplice veste di presidente sia del G-8 che del G-20, ma l'incontro con lui è stato solo una minore distrazione dall'impegno con cui si preparavano nel frattempo i successivi incontri con le autorità cinesi.

C'era una volta la relazione speciale con il Regno Unito, che veniva attivata in occasione di qualsivoglia novità internazionale di un qualche rilievo, ma il nuovo primo ministro inglese David Cameron ha visto e sentito il presidente americano non più di quanto abbiano fatto i suoi colleghi del continente europeo. È venuta e ha parlato al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite la nostra alta rappresentante per la politica estera, Lady Ashton (e quanto ci eravamo battuti perché la sua facoltà di farlo fosse scritta nel Trattato di Lisbona e fosse quindi esercitata), ma l'evento è passato sostanzialmente inosservato.

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Tags Correlati: Consiglio di sicurezza | David Cameron | Forze Armate | Francia | G8 di Genova | Gran Bretagna | Italia | Nicolas Sarkozy | Onu | Richard Haass | Società dell'informazione | Stati Membri | Stati Uniti d'America | Timothy Garton Ash | Unione Mediterranea

 

Ma soprattutto è stata devastante per l'Europa la sequenza di rivolte popolari che ha scosso in queste settimane la costa Sud del Mediterraneo, e cioè la parte di mondo a noi più vicina, quella che rientra nella nostra sfera regionale e della quale abbiamo celebrato la compresenza con noi nell'Unione Mediterranea voluta da Parigi. Lungo tutto lo svolgimento dei fatti Washington ha maturato le sue posizioni e ha intrattenuto le sue relazioni, senza né cercare né trovare alcuna sponda o a Bruxelles o nelle capitali europee. E se un'influenza ha potuto esercitare, lo ha fatto non grazie al concerto con gli alleati del Vecchio continente, ma grazie al miliardo e mezzo di dollari che annualmente trasferisce alle Forze armate egiziane e che forse ha contribuito a orientare le scelte a cui queste sono addivenute. In un articolo pubblicato in Italia dalla Repubblica, Timothy Garton Ash ha fatto una impietosa rassegna delle assenze europee, in particolare di quelle dei paesi mediterranei, dai quali più ci si poteva aspettare che esercitassero un ruolo. Ma non l'hanno esercitato.

Si sa, noi abbiamo la crisi, siamo impegnati nella ricerca di soluzioni comuni sui debiti sovrani e dobbiamo assestarci in una Europa sempre più tedesca che desta polemiche e dissensi (e almeno su questo siamo riusciti ad attirare l'attenzione del New York Times, che ci ha dedicato un articolo giovedì scorso).

Ma anche gli Stati Uniti sono oberati dai debiti, dal debito federale a quelli degli Stati membri, e vivono quotidianamente per questo aspre dispute politiche e una quantità crescente di proteste e di conflitti suscitati dalle tante vittime dei tagli, davvero pesanti, che sono minacciati. Eppure non rinunciano certo a esercitare il loro ruolo nel mondo, non si chiudono in se stessi, sanno che se lo facessero perderebbero subito terreno, e quindi voce in capitolo, negli equilibri mondiali che si stanno formando.

Si dirà che nel mondo loro sono stati fino ad ora il paese leader, che ciò dà ragione al loro sforzo di mantenere il proprio ruolo nonostante i guai interni, ma che questo non vale per noi. Troverei l'argomento irricevibile e non perché abbia sogni tardo-francesi di grandeur europea, ma perché - e lo sappiamo tutti benissimo - in un mondo ormai globalizzato segnato da interdipendenze, scambi, movimenti di persone e di capitali che non conoscono confini, le stesse partite interne si giocano in buona parte sull'arena globale. E in men che non si dica, per fare un esempio non del tutto teorico, chi resta chiuso ad arginare il suo debito, si può trovare comprato dalla Cina.

Dobbiamo proprio svegliarci e quelle che un tempo furono grandi potenze (quelle che io invidiavo, quando di loro ci si occupava in America, e dell'Italia no) devono prendere atto che, al di là di tutto, la demografia ha preso a giocare un grandissimo ruolo da quando miliardi di diseredati sono diventati cittadini di paesi sempre più sviluppati e più forti.
Anche per questo la loro storia di protagonisti della scena mondiale è finita, mentre protagonista può ancora essere nel suo insieme l'Europa. Le ragioni le abbiamo dette e scritte più volte, così come ci è ben noto lo spazio che potremmo occupare in primo luogo nella nostra regione e poi nello stesso mondo più largo, nel quale intendersi fra Oriente e Occidente sarà a lungo non facile. Del resto, se si percepisce in queste settimane il vuoto lasciato dall'Europa nelle vicende che interessano i nostri dirimpettai africani, vuol dire che c'è qualcosa che l'Europa può fare e che non fa.

Attenzione, però, queste stesse vicende dimostrano che vale ormai per l'Europa nel mondo ciò che vale per l'Italia in Europa. Non ha un posto garantito là dove si prendono le decisioni che contano e il mondo non si ferma ad aspettarla. Se sa farsi valere, se riesce ad avere la tanto agognata voce unica e a dire con essa qualcosa che serve, allora il mondo ne terrà conto con tutto il dovuto rispetto. Altrimenti andrà avanti ignorandola, come ha fatto in queste settimane. E il prezzo, alla fine, lo pagheranno gli europei.
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