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Fosse comuni a Tripoli, paese spaccato

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Questo articolo è stato pubblicato il 24 febbraio 2011 alle ore 06:37.


DERNA. Dal nostro inviato
Prima di accedere alla "Libia liberata", battezzata anche "repubblica provvisoria della Cirenaica", la frontiera egiziana appare un girone infernale; migliaia di mezzi, carichi di ogni merce, pronti ad accogliere i nuovi arrivati, paralizzano le corsie. C'è chi impreca contro le guardie egiziane, chi esibisce il passaporto, chi sbandiera conoscenze altolocate. Da quando la polizia libica ha abbandonato le postazioni «sono arrivate dalle 10 alle 15mila persone, in 24 ore», precisa un funzionario. Anche diversi libici. «Prima o poi Gheddafi bombarderà anche le città della Cirenaica», confida di fretta un libico. I funzionari egiziani non sanno più come orientarsi. Un anestesista libico che vuole andare a Bengasi è infuriato; gli hanno ritirato il passaporto per controllarlo restituendogliene un altro. La lunga corsia che porta in Libia è invece deserta.
Arrivati all'altra frontiera ci si imbatte in civili, vestiti di giubbotti di pelle sgualciti. «Benvenuti», ripetono. Nessuno, però, sa indicare chi è il funzionario capo. «Nella Libia comanda la rivoluzione», risponde un giovane, doppietta a tracolla e bandana in testa. Varcata la frontiera la situazione appare calma. Quasi non si fosse mai combattuto; i benzinai funzionano, i negozi sono aperti. Verrebbe quasi da non credere alle statistiche sulle vittime che crescono giorno dopo giorno e assumono le dimensioni di un brutale conflitto civile. Mentre il pulmino corre a 130 km orari, sfiorando i grandi manifesti con scritto "Libia Libera", la radio annuncia una stima della tv al Arabya: le vittime sarebbero 10mila, i feriti 50mila. Meno drammatiche seppure gravi altre stime, attorno al migliaio di morti. Nel pomeriggio arrivano voci di nuove bombe sui dimostranti sganciate a Tripoli all'alba e perfino fosse comuni nei dintorni della città. I capi dei comitati popolari che hanno in mano questa regione ripetono lo stesso ritornello. «L'opposizione controlla tutta la zona costiera: dalla frontiera fino ad Adjabiya, passando per Tobruk e Bengasi». Per un'ampia parte del territorio lo possiamo constatare anche noi. In serata Al-Arabiya annuncerà che Gheddafi è asserragliato a Tripoli, difeso dai fedelissimi.

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Tags Correlati: Abdelkarim Al-Hasadi | Al Arabiya | Al Qaeda | Bengasi | Celeste Biasioco | Cirenaica | Gheddafi | Kaim | Omar Bensalem | Rashid Rajab | Tobruk | Tripoli

 

Dopo due ore si arriva a Tobruk, una grande città, 300mila aitanti, che si affaccia sul mare. È stata la prima a essere dichiarata libera. Giovani in divisa regolano il traffico. Altri hanno iniziato la raccolta dei rifiuti. Altri ancora provvedono all'arrivo dei medicinali. Sembra tutto organizzato, ma in realtà non si riesce mai a capire chi comanda e cosa comanda. A Tobruk le proteste continuano. I giovani si radunano in piazza Re Idris, il monarca che il giovane Gheddafi rovesciò nel 1969 con un colpo di stato. «La rivolta non finirà finché Tripoli non sarà liberata dal dittatore», urlano sventolando le bandiere della Libia di re Idris davanti al commissariato della polizia annerito dalle fiamme. Pick-up carichi di uomini armati entrano ed escono dalla caserma dei militari: «Prima non siamo intervenuti, ma quando abbiamo visto i mercenari di Gheddafi sparare sulla gente, ci siamo subito uniti al popolo», confida un ufficiale frettolosamente. «Stiamo organizzando un piano antiaereo per difendere le raffinerie e gli impianti».
Il capo della sicurezza teme un attacco imminente. È stato avvertito dell'ultima spettacolare diserzione; un pilota di un jet militare che si è catapultato fuori dall'aereo lasciandolo schiantare sul mare. Doveva bombardare Bengasi e gli impianti petroliferi, ha confidato ai dimostranti. Il maggiore Rashid Rajab, 40 anni, spiega il perché di tanti civili armati: «Ho dato io stesso disposizione ai miei uomini di aprire i magazzini delle armi e di distribuirle al popolo in modo che potesse difendersi dai mercenari di Gheddafi».
Il viaggio prosegue. Dopo due ore arriviamo a Derna. Qui la conta dei morti è stata molto più alta. E i segni degli scontri sono molto più evidenti; i palazzi del potere di Gheddafi, almeno nove grandi edifici, sono anneriti dalle fiamme. Il carcere è aperto, la porta principale divelta. La popolazione continua a protestare davanti alla moschea. Quando ci vedono festeggiano il nostro arrivo come quello di un esercito liberatore. «Vi difenderemo noi. La città è nelle mani dei comitati popolari e dell'esercito. Ma i giovani armati li abbiamo selezionati e addestrati», precisa il capitano Abdallah. «I 30 mercenari stranieri da noi catturati sono invece stati trasferita a Beida poche ore fa. La gente voleva linciarli».
E proprio mentre ci troviamo a Derna arriva una notizia che fa infuriare i dimostranti: «Al-Qaeda ha costituito un emirato a Derna, diretto da Abdelkarim Al-Hasadi, un ex detenuto di Guantanamo», ha dichiarato il viceministro degli esteri Kaim, incontrando gli ambasciatori dei paesi Ue. Aggiungendo che il gruppo avrebbe disposto l'obbligo del burqa per le donne e ucciso chi si rifiuta di collaborare. Burqa e uccisioni non ne abbiamo viste. Tanto meno un clima da emirato islamico. Omar Bensalem, uno degli attivisti di Derna, smentisce: «Lo stesso Al-Hasadi non ha mai parlato di governo islamico a Derna». «Non ho mai visto l'estremisno islamico in questa terra - ci spiega Suor Celeste Biasioco, 77 anni in Libia dal 1964. La gente della Cirenaica è tollerante e pacifica. Ci considerano una grande famiglia». «Questa non è la rivolta egiziana - ci spiega Siraj shinnieb, 29 anni, incaricato del rudimentale settore comunicazione - internet qui non è così diffusa. A trascinare le piazze sono state le immagini sui telefonini dei corpi mutilati della nostra gente innocente».
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