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Questo articolo è stato pubblicato il 24 febbraio 2011 alle ore 06:40.
A Mario Pozza, presidente degli Artigiani della Marca Trevigiana, non è piaciuta la cancellazione dell'assessorato regionale all'artigianato, accorpato a quello dell'industria. «Vabbé che la giunta è formata anche dal Pdl, però il governatore Zaia...».
Cronaca di una disillusione. Non ci sono soltanto gli iscritti che telefonano a Radio Padania, microfoni (quasi sempre, non sempre) aperti a trasmettere i mal di pancia di una Lega Nord dove la base si sta allontanando dai vertici.
Un malumore di tipo diverso, ancora più profondo, sta gettando un'ombra sul consenso dei ceti produttivi che formano il blocco sociale di riferimento della Lega. Artigiani, piccoli imprenditori, professionisti. Alcuni alieni alla politica. Altri segnati da un ribellismo incanalato in un movimento con tratti populisti. Molti permeati da un leghismo come "ideologia generale" della comunità, contrapposta a un centralismo fallimentare e indebitato. Ma, soprattutto, tutti provati dalla recessione.
E, ora, non più così convinti che, alla Lega, si possa concedere un credito illimitato. «La situazione è drammatica. Conosco piccoli imprenditori che sono disperati», dice Maurizio Anselmi, uno degli esponenti del movimento "Imprese che resistono". Anselmi ha un'azienda di software a San Giorgio di Piano, in quella provincia di Bologna dove ha preso piede il Carroccio. «Ci hanno provato a corteggiare il nostro movimento - riflette Anselmi - , ma il sistema non cambia. Destra, sinistra, centro: sono tutti uguali».
Il 9 ottobre del 2009 a Vergiate Bossi, Tremonti, Giorgetti e il banchiere amico Massimo Ponzellini parteciparono all'incontro del Comitato spontaneo delle Pmi e degli artigiani della provincia di Varese. In questo anno e mezzo la Lega ha governato con Berlusconi, ha piazzato uomini nelle fondazioni bancarie e nei cda delle quotate, si è dilaniata nello scontro fra i colonnelli e il cerchio magico composto dai familiari e dai dirigenti che accudiscono il corpo malato del fondatore.
Ora, quel poco di federalismo fiscale diventato legge dello stato, rischia di diventare un sassolino nella macchina del consenso. «Il timore è che alla fine federalismo significhi pagare le tasse a Varese, a Milano e a Roma», dice Giorgio Merletti, presidente dell'associazione degli artigiani di Varese. Nella roccaforte-grembo del Carroccio bossiano e maroniano, Merletti è fra i pochi che non si sono fatti conquistare dalla forza egemonica dell'ultimo partito novecentesco, parole d'ordine lette sulla Padania e sui manifesti sparsi ovunque, sezioni aperte anche la domenica mattina, buona amministrazione pragmatica tipo l'Emilia Romagna degli anni Settanta e onde emotive a intermittenza contro gli immigrati. Nessun collateralismo esplicito.