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L'ultimo atto del raìs sotto assedio

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Questo articolo è stato pubblicato il 26 febbraio 2011 alle ore 09:34.

Chi non lo abbandonerà nel bunker saranno le Amazzoni, la guardia del corpo femminile che si immolò per salvargli la pelle in un attentato alla Sirte. Gheddafi è all'ultimo atto: ha ragione Robert Fisk sull'Independent ad affermare che non è un Re Lear pronto a fare cose che "dovranno empire di terrore la terra". Ma forse ha torto quando lo dipinge come un attore comico che a fine carriera decide di recitare in una tragedia: non avrebbe preso il potere a 27 anni e attraversato tutte le temperie, compreso il bombardamento di Reagan, se fosse soltanto una marionetta. È stato un leader, un capo militare, anche un terrorista, al quale la Libia andava stretta e che ama i coup de théatre, come è accaduto ieri quando ha arringato la folla sulla Piazza Verde.

Gheddafi ha avuto una sua grandezza. Veniva da un punto sperduto nel deserto della Sirte: fu il primo della sua tribù a studiare. A 17 anni salì in piedi su una cattedra del liceo per esortare i compagni a seguire Nasser, l'eroe che si propose di emulare. Fu espulso: a Misurata cominciò a reclutare i giovani più intelligenti e coraggiosi che poi fecero il colpo di stato del 1969 contro il debole re Idris.

Sollevò le speranze di un popolo, aveva ambizioni intellettuali, al punto di elaborare nel Libro Verde la "terza teoria universale", in contrapposizione sia al comunismo che al capitalismo. L'Islam, interpretato in maniera molto laica, doveva essere il propellente per lanciarla nel mondo arabo-musulmano. Fu anche un utopista: il potere direttamente al popolo, in un sistema che non era né il socialismo né la democrazia rappresentativa. Certo un fallimento: alla fine della Libia sono rimaste le cabile e le storiche divisioni tra Tripolitania e Cirenaica. Voleva lottare contro la mahsoubia, il nepotismo e la corruzione, poi c'è cascato in pieno.

E adesso che giunge l'ora scendiamo nel bunker. È sotto, probabilmente, alla caserma di Bab al-Aziziyya, sventrata il 15 aprile 1986 dai caccia di Reagan. Qui tutto è trasformato in museo, compreso il lettino della figlia adottiva Hanna, 16 mesi, uccisa dalle schegge, conservato sotto una teca di vetro. È qui che si è fatta riprendere la figlia Aisha, mostrando le rovine in tv: «Ecco - ha detto - io resto qui, come allora, con mio padre». Sono state forse le uniche parole significative del clan: Gheddafi ha vissuto in questa ossessione, nella memoria di quelle notti asserragliato con la famiglia ad aspettare le bombe. «Dove eravate voi?», ha detto rivolto a nuove generazioni che non lo capiscono e vogliono ben altro che la retorica guerresca.

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Tags Correlati: Bab Al-Aziziyya | Gheddafi | Libia | Politica | Robert Fisk | Saddam Hussein

 

Gheddafi non può scappare, in questo bunker c'è la sua vita. Saddam Hussein fuggì nel buco di Tikrit - ma vi ricordate il fornello a gas, le coperte, la barba lunga - perché aveva un buon motivo: condurre la guerra agli americani. Gheddafi non può fare la guerra al suo popolo semplicemente perché pensa di essere lui tutto il popolo libico, la Libia stessa.
Gheddafi è stato un giovane ufficiale animato dalla febbre di cambiare il mondo. La febbre si è tramutata in follia, in recita, e ora, che siamo all'ultimo atto, in disperazione e debolezza crudele. In queste settimane di inutile sangue sparso non si sentiva un dittatore ma l'educatore di una scolaresca renitente: ha pronunciato mille volte la parola bambini ribelli, giovani drogati. Con i massacri ha fatto un male estremo, senza rimedio, ma ha pure ucciso se stesso, l'ultimo barlume di quel capitano di cui per molto tempo dopo il colpo di stato non si conosceva neppure il nome. Se fosse rimasto così, solo un nome, sarebbe entrato nella galleria degli eroi arabi, ora è già un ritratto tra i peggiori dittatori della storia mediterranea.

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