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Questo articolo è stato pubblicato il 28 febbraio 2011 alle ore 08:06.
A ogni accenno di crisi nelle aree di rifornimento energetico circostanti – negli anni scorsi i frequenti contenziosi tra Russia, Ucraina e Bielorussia, che hanno spesso bloccato l'erogazione di gas verso Occidente; oggi il possibile arresto delle forniture d'idrocarburi da alcuni paesi del Medio Oriente e del Nordafrica in rivolta – tornano inesorabili in Europa le geremiadi sulla debolezza del Vecchio continente in materia d'importazioni energetiche e sulla sua incapacità di adottare concreti correttivi che limitino, se non la dipendenza, almeno l'incertezza delle forniture. E sul rischio di un'eccessiva subalternità a un produttore dominante, di solito identificato nella Russia, da cui proviene il 30% del petrolio e il 31,2% del gas importato in Europa via pipeline.
Il problema, noto da decenni, si sa che è certamente destinato ad aggravarsi, non a migliorare. Secondo un recente studio della Brown University, uno dei più antichi atenei Usa, all'orizzonte del 2030 l'Europa dovrà importare il 90-93% del suo fabbisogno di greggio e l'80-84% di quello di gas, contro un livello attuale del 74% e 40% rispettivamente. Ma se ci avviamo a un inesorabile aumento della nostra dipendenza, che senso ha cavillare se essa sarà verso una regione piuttosto che un'altra? Non sarà forse vitale procurarsi una materia prima che diventerà sempre più preziosa e contesa, invece di sottilizzare su vizi e virtù del fornitore?
In realtà, importare dalla Russia invece che dal Medio Oriente (o ancora da un terzo fornitore, africano o scandinavo) può fare una differenza importante. Quella, per esempio, che corre tra la ragionevole sicurezza che i contratti siano onorati (cosa che varie volte non è accaduta con la Russia, ma per colpa dell'Ucraina) e la probabilità, invece, che periodicamente qualche intoppo extra-economico (l'instabilità politica, la fragilità di regimi autoritari, i contenziosi legali e così via) metta a repentaglio la fornitura. Proprio come sta accadendo ora con la Libia o come potrebbe accadere domani con tutto il golfo Persico per il petrolio o con Algeria, Qatar e Nigeria per il gas.
L'Europa ha il curioso destino di trovarsi a portata di pipeline con due tra le regioni più ricche al mondo d'idrocarburi (l'ex Urss e il Medio Oriente vantano rispettivamente il 10% e il 56,6% delle riserve mondiali accertate di petrolio e il 30,5% e 40,6% di quelle di gas), ma di non avere la certezza di forniture sicure nel tempo: l'affidabilità delle due grandi aree di produzione è infatti, per motivi diversi, non troppo elevata. Ma se nel caso del petrolio una partita di greggio è sostituibile con facilità ricorrendo al mercato spot (è noto che il carico di una petroliera, nel suo viaggio dal golfo Persico a Rotterdam, può cambiare molte volte proprietario), per il gas, erogato via pipeline, la rigidità dei contratti (quantità certe, spesso con accordi cosiddetti take or pay che non lasciano margini di scelta ed elasticità al cliente; periodi pluriennali di fornitura; meccanismo dei prezzi molto più rigido) di fatto comprime la possibilità di scelta. L'esiguità del mercato Lng (Gas naturale liquefatto, il solo teoricamente commerciabile sul mercato libero come il carico di una petroliera), con soli 242,77 miliardi di metri cubi scambiati nel 2009 nel mondo, pari al 27,7% degli 876,54 miliardi globalmente esportati, riduce a fondo la possibilità di scelte alternative.