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Le bombe di Gheddafi sui terminal

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Questo articolo è stato pubblicato il 01 marzo 2011 alle ore 08:06.

È carica di tensione l'aria che si respira al check-point di Ajdabya, 170 km sud-ovest di Bengasi. I volti dei giovani ribelli sono contratti. I loro gesti precipitosi indicano che qualcosa di grave potrebbe accadere, da un momento all'altro. Sono le 15.45. Lo sbarramento è in stato di allerta. Poco prima è corsa voce di un primo razzo sparato da un caccia dell'aviazione di Gheddafi verso un deposito di munizioni, a due chilometri di distanza. Ora i ribelli sul retro di tre pick-up scrutano nervosamente il cielo mentre muovono adagio le loro batterie anti-aeree.

A pochi metri altri combattenti aprono grandi casse di munizioni appena arrivate. Appartenevano alle forze di regolari di Gheddafi. D'improvviso un rombo sinistro, lontano. Una voce che urla, il dito puntato verso un punto tra le nuvole. La prima batteria spara una raffica. Subito dopo un boato sordo e una colonna di fumo che si leva in aria. Passa un minuto, interminabile. Sul lato opposto un altro boato, a circa due chilometri. La contraerea è più preparata. Le tre batterie aprono il fuoco verso la sagoma di un caccia che appare per poi scomparire tra le nuvole. Finiscono le munizioni. Due giovani ragazzi corrono con una cassa di proiettili verso l'ultima batteria. Altri spari. Poi il silenzio.
È il primo attacco aereo delle forze fedeli a Muammar Gheddafi dall'inizio della rivolta. Il deposito di munizioni è stato mancato, di poco. Ma il gesto ha un alto valore simbolico. La scorsa settimana un pilota che era stato spedito a bombardare un sito a Bengasi aveva rinunciato alla missione, catapultandosi in aria e lasciando il velivolo schiantarsi a terra. Questa volta è andata diversamente. Al check-point i pick-up sfrecciano in direzione di Brega, un importante terminale petrolifero a mezz'ora di auto. L'obiettivo è difendere l'ultima postazione che segna il territorio controllato dai ribelli. Ripartiamo verso Bengasi insieme a Pietro del Re di Repubblica, e Stefano Citati del Fatto quotidiano. Siamo stati gli unici giornalisti testimoni dell'accaduto.

Poco prima a Brega, una località sperduta in mezzo al deserto, le forze dell'opposizione ci avevano mostrato la loro ultima conquista. Cento kalashnikov nuovi fiammanti e diverse casse di munizioni. «Li abbiamo sequestrati da un convoglio di forze fedeli a Gheddafi. Erano 85 soldati. Ci hanno consegnato le armi chiedendoci di lasciarli andare dalle loro famiglie». Un altro segnale che le forze fedeli al colonnello si stanno sfaldando. Tra le armi sequestrare ci sono due grandi contenitori di pallottole. Sono proiettili a frammentazione. Vietati dalle convenzioni internazionali che regolano la guerra. Se ti colpiscono allo stomaco esplodono in tanti frammenti, la morte è quasi certa. L'euforia dei giovani rivoluzionari è incontenibile. Mentre controllano le auto che provengono dalla zona ancora non liberata sparano raffiche di festeggiamento verso il cielo. «Negli ultimi giorni sono transitati 1.500 nostri combattenti, per andare a sferrare un attacco contro le forze di Gheddafi», spiega uno di loro.

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Tags Correlati: Bengasi | Bilancia commerciale | Brega | Muammar Gheddafi | Stefano Citati | Tofikh Aimangosh

 

A 120 km da Brega c'è Ras Lanuf, il terminale petrolifero più importante di tutta la Libia, dove si trova anche una grande raffineria con una capacità di 220mila barili al giorno. Ora è in mano ai ribelli, ma le forze di Gheddafi lo accerchiano, Ras Lanuf è il confine tra la Cirenaica e il resto della Libia. Andarci è troppo rischioso. Anche i dintorni di Brega non sono un completamente sicuri. Tre giorni fa due fotografi freelance occidentali sono stati fermati da miliziani fedeli a Gheddafi, picchiati e derubati di tutto. Per arrivare a Brega ci vogliono due ore e mezza di auto lungo una strada coperta dai banchi di sabbia. Appena usciti da Bengasi si distende un enorme quartiere fantasma: 20mila unità abitative, ancora da terminare, costruite da una grande compagnia cinese. Da qui 6mila operai cinesi alcuni giorni fa hanno percorso a piedi il tragitto fino al porto per poi essere evacuati. Brega è una località surreale. Al di là dei ribelli armati non c'è anima viva. I compound delle compagnie petrolifere e le grandi cisterne sono circondati da due barriere di filo spinato e da un muro di cinta. I negozi dell'unica via hanno tutti le saracinesche serrate. Eppure i lampioni sulla strada e le luci all'interno dei compound sono accesi: i ribelli proteggono ogni sito. Hanno compreso che, se la Cirenaica vuole davvero iniziare a esportare petrolio e prodotti raffinati, devono garantire la loro protezione.
Tofikh Aimangosh, un giovane autista impiegato nella compagnia libica Sirte Oil, osserva le raffinerie. «Vedete voi stessi. È quasi tutto fermo. Produciamo solo la benzina che serve a noi, ma tra poco riprenderemo l'export. Il petrolio ricostruirà la nostra nuova Libia».

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