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Questo articolo è stato pubblicato il 01 marzo 2011 alle ore 08:04.
«Sono stato il primo a dire che il Trattato di fatto è sospeso e non poteva essere diversamente: per noi la parte più importante del Trattato era il controllo delle coste. I nostri uomini della Guardia di finanza erano in ambasciata. Era chiaro che, in quel contesto, il Trattato non era più in vigore». Così ieri Ignazio La Russa, ministro della Difesa uscendo da un pranzo a Milano con il premier Berlusconi e alcuni parlamentari lombardi.
Ma è una posizione, questa, che non aiuta affatto a sbrogliare l'intricata matassa giuridico-politico-diplomatica che è diventata la sorte del Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra Roma e Tripoli in vigore al 2 marzo 2009 che vincola non Berlusconi e Gheddafi ma l'Italia e la Libia come stati sovrani. Prima di tutto perché nel Trattato non vi è alcuna forma di "do ut des" o baratto tra "grande gesto" da 5 miliardi di dollari con la strada costiera a chiudere il contenzioso coloniale e una politica di freno alla partenza dei clandestini da parte libica. Vi è solo l'impegno italiano a collaborare al controllo delle frontiere terrestri del Sud con sistemi di rilevamento messi a disposizione dal gruppo Finmeccanica e finanziati dall'Ue. Probabilmente il ministro La Russa ha equivocato confondendo il Trattato del 30 agosto 2008 firmato a Bengasi con l'accordo raggiunto a Tripoli il 29 dicembre del 2007 tra l'allora ministro dell'Interno del Governo Prodi, Giuliano Amato e il ministro degli Esteri, Abdurrahman Moahamed Shalgam, attuale rappresentante alle Nazioni Unite che sta guidando la defezione della diplomazia libica dalle azioni di Gheddafi. È infatti nell'accordo Amato-Shalgam che si prevede il controllo delle coste e si formalizza la cessione a titolo gratuito di sei motovedette italiane con addestratori della Guardia di Finanza alla Libia. Come quella da cui sono partiti raffiche di mitra il 13 settembre scorso contro un peschereccio di Mazara del Vallo in acque internazionali.
Negli ultimi giorni si è ventilata, inoltre, l'ipotesi che un Trattato ancora in vigore impedirebbe azioni militari in partenza dalle basi italiane secondo il principio della "non ingerenza" o che sarebbe di ostacolo ad interventi umanitari. Perplessità che il professore di diritto Internazionale alla Luiss, Natalino Ronzitti, in un'analisi per l'Istituto Affari internazionali, si sente di escludere ricordando che il tema è affrontato negli articoli 3 e 4 del Trattato. Il primo obbliga le parti a non ricorrere alla minaccia e all'uso della forza ed è solo «ripetitivo» rispetto agli obblighi stabiliti dalla Carta Onu. Il secondo articolo stabilisce il principio della non ingerenza e anche in questo caso ribadisce quanto previsto dalla Carta Onu. Anche l'obbligo di non porre le basi su territorio italiano a disposizione per atti sottili contro la Libia stabilito dall'articolo 4 paragrafo 2 del Trattato deriva dal diritto internazionale. Questo vuol dire, spiega Ronzitti, che l'Italia potrebbe mettere a disposizione dei paesi alleati le proprie basi qualora venisse attaccata dalla Libia agendo per legittima difesa o quando dovesse partecipare ad un intervento umanitario in Libia autorizzato dal Consiglio di sicurezza o dal governo provvisorio libico ma la risoluzione 1970 di sabato scorso non menziona né una zona di interdizione area (no fly zone) né un intervento umanitario.