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Questo articolo è stato pubblicato il 04 marzo 2011 alle ore 15:41.

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Il mattino del 20 febbraio, una colonna di Suv scortata da mezzi dell'esercito e polizia thailandese è sfrecciata sulla strada semideserta che conduce al confine con la Cambogia. L'orizzonte sud è segnato dai crinali coperti di foresta dei monti Dangrek, là dove sorge l'antico tempio khmer di Preah Vihear, circondato da quei 4.6 chilometri quadrati oggetto della contesa tra Thailandia e Cambogia.

I Suv trasportavano gli addetti militari di 13 nazioni. A eccezione della Cambogia, erano rappresentati tutti i paesi dell'Asean, l'Associazione dei Paesi del Sud-Est Asiatico (Brunei, Cambogia, Indonesia, Laos, Malaysia, Birmania, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam) oltre Stati Uniti, Francia, Cina, Giappone, Russia e Corea del Sud. Gli ufficiali erano condotti in tour per osservare i danni prodotti dall'artiglieria cambogiana negli scontri dei giorni precedenti. Ma i vecchi rifugi davanti alla scuola del villaggio di Phum Srol, centrata da diversi colpi e dove solo il caso ha evitato una strage, testimoniano una situazione che si protrae da decenni. Tutta la storia del sud-est asiatico è segnata da guerre, cicliche come i monsoni, che ogni volta rischiano di trasformarsi in un conflitto panasiatico.

Ecco perché quel tour di ufficiali aveva un significato un po' più profondo del sopralluogo propagandistico. Se n'è avuta conferma due giorni dopo, nel meeting svolto a Jakarta tra i ministri degli esteri thai, cambogiano e indonesiano. Come presidente di turno dell'Asean, l'Indonesia ha offerto i suoi "buoni uffici" per stabilire una tregua che tenesse fede alla costituzione dell'Asean. Siglata nell'ottobre del 2009, ha tra i suoi principali obiettivi quello di "mantenere e promuovere la pace, la sicurezza e la stabilità nella regione".
Il meeting è durato 90 minuti: è stato la replica delle discussioni precedenti, ma le parti in causa hanno accettato la presenza di osservatori indonesiani ai confini. È stato un piccolo passo. Ma, com'è stato detto, «un piccolo passo che ha fatto compiere un grande balzo in avanti nella credibilità dell'Asean».

Secondo alcuni osservatori è stata un'occasione "storica". Con il meeting di Jakarta, infatti, sostenuto anche dal segretario generale dell'Asean, il thai Surin Pitsuwan, si è stabilito un precedente: gli stati membri possono risolvere le loro divergenze all'interno dell'Associazione e questa, a sua volta, può affermarsi come mediatrice nella risoluzione dei conflitti regionali. Il fattore più importante è che è stato infranto quel tabù che impediva di parlare di un conflitto all'interno dell'Asean. Il mantra dell'Asean era quello della "no war", negazione aprioristica della guerra e affermazione di non interferenza negli affari interni degli stati. Spiega Kripa Sridharan, una delle teste d'uovo dei think tank geopolitici di Singapore, «Asean non è mai stata per la risoluzione dei conflitti quanto per la ‘mitigazione del conflitto». Una filosofia che derivava dalla stessa cultura del sud-est asiatico, bloccata dalla paura di fallire e quindi "perdere la faccia". È per lo stesso, quasi genetico, motivo che gli stati membri, in caso di scontri armati, non parlavano mai di guerra (quando il

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