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Questo articolo è stato pubblicato il 04 marzo 2011 alle ore 09:14.

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In sordina e sullo sfondo delle clamorose rivoluzioni tunisina, egiziana e adesso libica, qualcosa si muove anche in Marocco e agita la monarchia felix di Mohammed VI.

Senza avere le caratteristiche radicali delle altre rivolte che puntavano al rovesciamento dello status quo, la protesta marocchina ha comunque rivelato l'insofferenza crescente nei confronti di un potere quasi assoluto, quello del re salito al trono nel 1999. E la voglia di riforme costituzionali che impediscano al sovrano di decidere sostanzialmente tutto, a fronte di un governo e un Parlamento poco più che di facciata.

Il 20 febbraio 15mila persone sono scese in piazza in tutto il paese non per chiedere la testa di re Mohammed - come avevano fatto i tunisini con Ben Ali e gli egiziani con Hosni Mubarak - ma per gridare la voglia di cambiamento, partendo da un nuovo sistema politico e una giustizia vera e indipendente. Manifestazioni pacifiche, con slogan e canti, sconfinate nella violenza in alcune aree del nord, più povere e depresse: ad al-Hoceimas sono morte cinque persone in una banca data alle fiamme dai dimostranti, 120 gli arresti e 128 feriti. In quella circostanza Mohammed VI, 47 anni e da "soli" 12 anni al potere, ribadì il suo impegno per riforme democratiche precisando che non avrebbe però ceduto «alla demagogia».

Sabato scorso mille persone si sono riversate nelle strade di Casablanca, questa volta circondate da un massiccio apparato di sicurezza, con gli stessi propositi. L'obiettivo di uno dei gruppi più attivi, l'Associazione marocchina per i diritti umani (Amdh), del resto è quello di trasformare la protesta in un appuntamento domenicale fisso e sfidare la censura che sarebbe stata imposta ai media, stando ad Afrol News, che denuncia un clima di intimidazione e paura.

«Del Marocco si dice sempre che è diverso dagli altri paesi della regione. In realtà i diritti umani sono calpestati in tutto il mondo arabo» ha detto al Financial Times Mohammed Salmi, professore universitario e membro del movimento islamista Giustizia e Carità, ricordando gli episodi di tortura, le detenzioni arbitrarie, il bavaglio ai media e l'impostazione "medievale" della Costituzione marocchina. Una situazione che per gran parte dei 31 milioni di abitanti, soprattutto per i giovani (anche qui riunitisi lungo le vie di Facebook), non è più tollerabile.

Qualche risultato sembra già essere arrivato: un consigliere del re, Mohammed Moatassim, mercoledì scorso ha incontrato cinque leader sindacali annunciando loro che il sovrano «ha deciso di procedere con riforme politiche, economiche e sociali. Il fatto che qui non ci sia una battaglia (come a Tunisi o al Cairo, ndr) non è un buon motivo per stare inerti». Il governo di Rabat ha previsto nel budget 15 miliardi di dirami (quasi due miliardi di dollari) in più per la Caisse de Compensation, una sorta di fondo per i sussidi. E conta di assumere nel settore pubblico 4mila laureati altamente qualificati per cercare di fermare le proteste quasi quotidiane di quel segmento sociale a Rabat. Nella rivolta di Tunisi, vale la pena di ricordarlo, uno dei fattori scatenanti fu proprio la rabbia di giovani istruiti, senza lavoro. Senza un futuro.

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