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Questo articolo è stato pubblicato il 05 marzo 2011 alle ore 08:12.

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Lenta risalita
Come mostrano i grafici, continua la graduale ripresa del mercato del lavoro americano, anche se il ritmo di recupero degli occupati è per ora ben lontano da quello che servirebbe per assorbire l'emorragia di posti accusata dall'economia Usa all'apice della crisi
I due dati più incoraggianti sono il tasso di disoccupazione (sceso sotto il 9%) e il saldo dei posti di lavoro tra le aziende private, positivo per 222mila unità
NEW YORK. Dal nostro inviato
Non c'è tregua per l'economia americana. E per l'amministrazione Obama. Qualsiasi buona notizia è controbilanciata da un'altra di senso opposto. Ieri mattina il Dipartimento del Lavoro ha annunciato che il tasso di disoccupazione è sceso di un decimo di punto sotto la soglia del 9% per la prima volta dall'aprile del 2009. Un nuovo segnale quindi della ripresa dell'economia Usa. Ma i mercati finanziari non hanno avuto il tempo per celebrarla. Focalizzando la propria attenzione su un altro indicatore, negativo: il prezzo del petrolio, ieri ulteriormente aumentato in seguito all'inasprimento della crisi libica.
Per evitare che la ripresa faticosamente avviata venga soffocata da un imprevisto aumento del costo dei combustibili, il governo sta valutando il ricorso alle proprie riserve strategiche. Nella speranza che la situazione in Libia si risolva in tempi ragionevoli e il prezzo del greggio torni su livelli sostenibili.
Petrolio a parte, i segnali venuti a febbraio dall'economia americana, seppur non enusiasmanti, sono stati senza dubbio positivi. Alla perdita di 30mila posti di lavoro pubblici, dovuta ai tagli che stati (-12mila) ed enti locali (-18mila) sono stati costretti a fare per via dei pesanti deficit di bilancio, è corrisposto un forte aumento di quelli del settore privato non-agricolo, che dà occupazione al 70% della forza lavoro americana. Qui sono stati creati in tutto 222mila nuovi posti. Di cui 34mila nella sanità, 33mila sia nel comparto delle costruzioni che in quello manufatturiero e 22mila nei trasporti. È il maggior incremento dall'aprile del 2010.
A questi dati hanno fatto eco quelli sugli ordini dei beni durevoli, aumentati a febbraio del 3,2%, e gli ordinativi alle fabbriche, che hanno registrato in gennaio una crescita del 3,1%, raggiungendo i 445,6 miliardi di dollari. È stato il rialzo più consistente degli ultimi quattro anni, decisamente superiore alle previsioni degli economisti, che si aspettavano solo un +2%. Determinante per questo il comparto dei trasporti, e in particolare quello dell'aeronautica.
I dati economici resi pubblici ieri hanno dato ragione al governatore della banca centrale Usa Ben Bernanke che questa settimana, testimoniando in Congresso, aveva espresso cauto ottimismo in materia di occupazione. Bernanke aveva tra l'altro fatto notare che a febbraio il 68% dei gruppi industriali americani ha dichiarato di aver aumentato i propri posti id lavoro, il tasso più alto dal lontano maggio 1988.
La previsione della banca centrale è che il tasso di disoccupazione scenda a un livello compreso tra il 7 e l'8 per cento entro la fine del 2012. E che il trend in discesa possa continuare lo fanno pensare anche i segnali positivi arrivati ieri dal cosiddetto indice U-6, che include chi ha un lavoro part-time ma lo vorrebbe a tempo pieno, e coloro che sono usciti completamente dal mercato del lavoro. Per la prima volta dall'aprile 2009 il tasso è sceso, anche se di appena un decimo, sotto il 16%. Il che significa che in America oggi le persone sotto-occupate o completamente prive di occupazione sono 24,4 milioni.
Tornare sotto 15 milioni, come prima della crisi economica cominciata nel 2008, non sarà però facile. Le imprese rimangono infatti relativamente caute, preferendo spesso aggiungere ore di straordinario piuttosto che puntare su nuove assunzioni.
Perché il tasso di disoccupazione possa scendere visibilmente, occorrerà che si creino almeno 300mila nuovi posti di lavoro per svariati mesi di fila. Uno scenario su cui ancora pochi economisti sono pronti a scommettere. Perché oltre al rischio che l'aumento del prezzo del petrolio si riveli duraturo e possa quindi tagliare le gambe alla ripresa, c'è anche il problema dei tagli (e conseguenti licenziamenti) che i repubblicani potrebbero imporre sia a livello federale che locale.
Mark Zandi, capo economista di Moody's Analytics, ha calcolato che si potrebbero perdere così fino a 700mila posti di lavoro pubblici. Meno pessimista il governatore Bernanke, che comunque ha parlato sempre di «un paio di centinaia di migliaia di posti persi».
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