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Questo articolo è stato pubblicato il 06 marzo 2011 alle ore 08:12.

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Esiste una banca, con sede nel Barhain, presente da decenni in Italia con una filiale. È la Arab Banking Corporation. Nel 1992 – vent'anni fa – si diceva che stesse acquistando azioni Perrier per conto degli Agnelli. In Italia, insomma, la Arab Banking Corporation non è una nuova arrivata. Nuovi arrivati sono però i suoi azionisti di maggioranza: solo tre mesi fa, il 2 dicembre 2010, a la banca centrale libica è salita al 60% di questo istituto tanto grande quanto sconosciuto ai più. Fino ai primi del 2010 la Libia era un'azionista minoritario, ma nell'ultimo anno in più tappe è salita alla maggioranza. Così, con un tempismo incredibile, alla vigilia della guerra civile a Tripoli e Bengasi, ecco che in terra italica spunta la filiale di una nuova banca a maggioranza libica: la Arab Banking Corporation. Sede a Milano, via Amedei 8. Pieno centro.

Quote libiche: Italia pronta al blocco (di Rossella Bocciarelli e Isabella Bufacchi)

Questo è solo l'ultimo tassello di un puzzle che il Colonnello Gheddafi da anni – da quando ancora la Libia era sotto embargo – costruisce in Italia. Sarà per la vicinanza geografica. Sarà per il senso di rivalsa atavico che il Colonnello ha sempre avuto verso l'ex potenza colonialista. Sta di fatto che, quasi come volesse ripercorrere la storia al contrario, da decenni la Libia dietro le quinte sta lentamente riconquistando l'Italia attraverso le armi della finanza. D'altra parte grazie al petrolio la Libia di soldi ne ha tanti. È il 1976 quando il Colonnello, spendendo l'equivalente di 415 milioni di dollari, fa il primo acquisto clamoroso: compra il 10% della Fiat dopo il viaggio in Libia dell'Avvocato Agnelli. Siamo più di 30 anni prima delle tende piantate a Roma. Nel 1986 la presenza libica nella casa automobilistica desta però l'allarme del presidente americano Ronald Reagan, così quell'anno Gheddafi esce dal Lingotto. Con una ricca plusvalenza.

Anche nel 1997 – in pieno embargo – il Colonnello conquista un altro peso massimo italiano. Quell'anno la Libyan Arab Foreign Bank paga 400 milioni di dollari per comprare il 5% della Banca di Roma in fase di privatizzazione. «Siamo assolutamente tranquilli» commentò allora l'amministratore delegato Giorgio Brambilla. L'operazione non aggirava l'embargo, perché non era il governo libico a comprare direttamente. E nessuno alza ciglia. Così, negli anni successivi, le varie braccia finanziarie di Tripoli entrano in Oilinvest che controlla Tamoil Italia, nel gruppo tessile Olcese, nella Juventus. Piano piano, senza destare grandi clamori, il puzzle si allarga. E queste sono le partecipazioni note: se è vero quello che dichiarava nel 2001 a Bloomberg il numero uno della Lafico Ali El Huwej, cioè che la strategia di Gheddafi era di comprare piccole quote azionarie in giro per il mondo anche dietro schermi societari per aggirare i divieti dell'embargo, allora anche in Italia si potrebbe immaginare una presenza più corposa. Ma non si sa.

È comunque dopo la fine dell'embargo, nel 2003, che la Libia può veramente aprirsi al mondo. Usando anche il fondo sovrano Libyan Investment Authority, creato qualche anno dopo, aumenta i pezzi del puzzle anche in Italia. Oggi è presente in Finmeccanica (con il 2,01%), in Eni (circa l'1%), in Retelit (14,79%), nella Juventus (7,5%), nella Triestina Calcio (33%), in Banca Ubae (67,55%). La partecipazione che ha fatto più clamore, però, è quella in UniCredit dove la Libia (attraverso soggetti diversi) ha 7,58%. La più recente è quella in Arab Banking Corporation, con filiale a Milano. Nessuna di queste quote azionarie è stata congelata.

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