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Questo articolo è stato pubblicato il 06 marzo 2011 alle ore 14:33.

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Raccontano che quando uno dei suoi avvocati-parlamentari gli ha fatto balenare la prospettiva di passare alla storia come il «Beccaria del terzo millennio», Silvio Berlusconi abbia deciso di rompere ogni indugio sulla «grande, grande, grande riforma» costituzionale della giustizia. L'idea di essere paragonato al grande illuminista del Settecento lo avrebbe convinto persino più della possibilità di dare uno schiaffo politico al suo ex alleato, ora acerrimo nemico, Gianfranco Fini. Così, dopo due anni e mezzo di annunci, sette rinvii e numerose retromarce, giovedì sarà il giorno del debutto della riforma al Consiglio dei ministri. «Epocale», l'ha ribattezzata il premier, anche se il testo che il governo varerà «non è - ammette Niccolò Ghedini - scritto sulla pietra», perché cambierà prima di arrivare al traguardo. Se ci arriverà. Ne è sicuro il ministro della Giustizia Angelino Alfano. «Nessuno potrà dire che stiamo facendo una riforma per Silvio Berlusconi perché una riforma costituzionale non può essere applicata ai processi in corso», ha puntualizzato, aggiungendo che la riforma «sarà completata subito prima delle prossime politiche ed entrerà in vigore tra qualche anno». E però già è scoppiato un piccolo giallo: il capogruppo Pdl Fabrizio Cicchitto dice che «si sta discutendo se togliere la norma transitoria all'interno del progetto organico di riforma della giustizia che verrà presentato la prossima settimana dal ministro Alfano». Ma Ghedini esclude «categoricamente» che se ne sia mai discusso. «Nella bozza - assicura - non c'è alcuna norma transitoria».

Eppure, il 23 novembre '99, quando fu approvata con voto bipartisan la riforma costituzionale del «giusto processo» (articolo 111 della Costituzione), la norma transitoria c'era eccome. L'articolo 2 diceva che la legge avrebbe regolato «l'applicazione dei principi della presente legge costituzionale ai processi in corso». E a gennaio 2000 venne infatti varato un decreto urgente per evitare contraccolpi sui processi in corso.

Da via Arenula trapela solo che «la riforma costituzionale sarà accompagnata da leggi attuative». Alcune modifiche rimanderanno infatti alla legge ordinaria per i dettagli. Sarà così per la separazione delle carriere, per il doppio Csm (uno per i giudici e l'altro per i pm), forse per l'obbligatorietà dell'azione penale e per l'uso della polizia giudiziaria sganciato dai pm, per la responsabilità degli atti compiuti dai magistrati nell'esercizio delle loro funzioni. La riforma fisserà i princìpi. Per esempio, la composizione e la proporzione tra laici e togati nei due Csm e la presidenza (nell'ultima bozza Alfano è affidata al Capo dello Stato). Ma alcune modifiche, senza norma transitoria, potrebbero applicarsi fin dall'entrata in vigore della riforma, come il divieto per il Csm di approvare atti di «indirizzo politico» (le pratiche a tutela) o i pareri non richiesti dal ministro. O quelle sulla «parità delle parti», se dovessero tradursi in integrazioni dell'articolo 111 sul giusto processo.

Problemi tecnici ma anche politici. Per il Pd, la riforma «è solo un modo per affrontare i problemi di Berlusconi» e per l'Udc è «vendicativa nei confronti della magistratura». Mercoledì Alfano la illustrerà ai Responsabili e alla Lega, che a quanto pare non sarà accontentata sull'elezione dei capi degli uffici giudiziari. Ma è difficile che il ministro riesca ad aggregare un consenso ampio, auspicato dal Quirinale per le riforme costituzionali ma anche necessario per avere una maggioranza qualificata e evitare il referendum popolare confermativo. Tra l'altro, fino a ieri il Quirinale non era stato ancora aggiornato, né con un testo scritto né oralmente, sul ddl di riforma. La prassi istituzionale vuole che il Capo dello stato, garante della Costituzione, sia preventivamente informato, come del resto aveva fatto lo stesso Alfano a ottobre, quando salì al Colle per illustrare a Napolitano le linee generali della riforma, senza peraltro ottenere alcun entusiasmo. Poi non se ne fece niente. «Tutta colpa di Fini e dei finiani, e dei loro no insuperabili», si giustifica oggi Berlusconi, rinfacciando al presidente della Camera anche la mancata approvazione del ddl intercettazioni. Ma ora che Fini è all'opposizione, il premier non esclude qualche forzatura pur di lasciare ai posteri la sua riforma. Anche se resterà solo sulla carta e non taglierà mai il traguardo.

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